Home > Archivio > Editoriali > CENT’ANNI! DAL GENOCIDIO DEGLI ARMENI
Stampa
thumb

CENT’ANNI! DAL GENOCIDIO DEGLI ARMENI

Gabriella Uluhogian

thumb

Cent’anni e tanta stanchezza…. Il 24 aprile 1915 a Costantinopoli viene dato l’avvio a un genocidio ancora oggi non riconosciuto da chi l’ha commesso e che suscita stupore, e talvolta fastidio, in chi, assolutamente ignaro, ne sente parlare.
Nella notte del 24 aprile di cent’anni fa, nell’allora capitale dell’Impero ottomano, furono arrestate alcune centinaia di armeni in vista: giornalisti, scrittori, deputati, amici di quei Giovani Turchi con i quali, solo pochi anni prima, avevano inneggiato alla svolta democratica in Turchia.
Molti di loro non diedero mai più notizia di sé: alla stazione di Haydar Pacha, affacciata sul Bosforo, furono caricati su un treno e avviati verso l’interno dell’Anatolia. Di qualcuno si seppe la fine atroce, di un altro si scoprirono dei versi nella tasca di una giacca abbandonata. Pochissimi ritornarono stravolti alle loro case…
Era solo l’inizio di quella pulizia etnica che eliminò gli armeni dalla terra che abitavano da millenni: la prima guerra mondiale, che portò lutti e rovine mai prima visti in Europa e nel mondo, ne favorì l’esecuzione.

Nei secoli invasi da popoli diversi
Gli armeni nel loro territorio, ponte o corridoio che unisce l’Asia all’Europa, la Mesopotamia al Mar Nero avevano visto e subito invasioni e domini di popoli diversi: Bisanzio e la Persia, gli arabi, i turcomanni, i turchi selgiuchidi, gli ottomani. Nella parte orientale, quella che impropriamente viene definita caucasica – in realtà è a sud del Caucaso – i russi avevano esteso il dominio fin dall’inizio del XIX secolo.

Dopo la conquista di Costantinopoli (1453) da parte dei turchi ottomani, gli armeni avevano continuato a vivere nella terra avita ed erano divenuti linfa vivificante dell’Impero ottomano. Contadini laboriosi, che coltivavano campi e piantavano frutteti; artigiani industriosi, sarti, orefici, calzolai; intellettuali innovatori, primi nell’arte della stampa con libri, giornali, riviste; alti funzionari e architetti di Corte: tutti avevano offerto generosamente la loro intelligenza e capacità ai conquistatori. Non illudiamoci. La pace e la convivenza perfetta verranno alla fine dei tempi, ma intese e tolleranze possono attuarsi al di là delle fedi religiose: cristiani (oltre gli armeni – primo popolo cristiano della storia – greci, assiri), musulmani, ebrei avevano convissuto più o meno pacificamente nel multietnico Impero ottomano per molti secoli.

Ma le cose erano destinate a cambiare. Già sul finire del secolo XIX, il sultano “rosso” Abdul Hamid, perseguendo gli ideali del panturchismo che mirava a unire tutte le stirpi turche dal cuore dell’Asia alle sponde del Mediterraneo, aveva stroncato nel sangue le richieste di riforme avanzate dagli armeni: si ebbe così nel 1895-96  la prima strage di massa che provocò trecentomila vittime. Pochi anni dopo, per motivi mai chiariti fino in fondo, probabili contrasti tra le forze rivoluzionarie dei Giovani Turchi e il potere sultaniale, altri trentamila armeni furono massacrati ad Adana e dintorni nel 1909.

Il “grande Male”
Furono quelli i prodromi della catastrofe, il “grande Male”, come gli armeni chiamano il loro genocidio. Allo scoppio della guerra la situazione, già tesa da decenni per il dispotismo, la corruzione, l’arbitrio che caratterizzavano specialmente le province orientali dell’Impero ottomano, “grande malato d’Europa”, precipitò. Quando le forze dell’Intesa (Francia, Gran Bretagna, Russia e più tardi Italia) attaccarono la Turchia e la sua alleata Germania, anche gli armeni combattevano nelle armate imperiali; ben presto, però, accusati di connivenze con i compatrioti che nella parte orientale dell’Armenia erano sotto il dominio russo, furono disarmati. Cittadini di seconda classe, quindi, dhimmi, non degni di combattere per la patria comune, agli occhi del triumvirato costituito da Talaat Pacha, ministro degli Interni, Djemal Pacha, ministro della Marina, e Enver Pacha, ministro della Guerra. Questi i capi del Comitato Unione e Progresso (CUP) i quali, messa da parte l’ala liberale dei Giovani Turchi, erano diventati i dittatori della Turchia in guerra e furono i primi responsabili del genocidio degli armeni.

Infatti, dopo gli arresti di Costantinopoli, a cominciare dalla primavera del 1915 in tutte le città e i villaggi armeni gli uomini validi non militarizzati furono invitati a presentarsi alle autorità locali che li incarcerarono e, in seguito, a piccoli gruppi li allontanarono e li soppressero in luoghi appartati. Sempre prendendo a pretesto la sicurezza sul fronte orientale, il 27 maggio fu promulgata la “legge temporanea di deportazione”, seguita il 10 giugno da un’altra legge “temporanea” quella di “espropriazione e confisca dei beni” degli armeni che, con ipocrisia quasi ironica, si assicurava, sarebbero stati restituiti al loro ritorno. Queste leggi si estesero a tutti i sei vilayet (distretti) a forte presenza armena, per lo più ben lontani dal fronte orientale. Cominciò così il tragico susseguirsi delle carovane di popolazione inerme – gli uomini validi erano già stati eliminati -, donne, bambini e vecchi verso mete lontane e imprecisate, verso sud, verso Aleppo e di lì, per maggior sicurezza (!) verso i deserti della Mesopotamia. Nel giro di un anno tutta la popolazione armena fu strappata alle proprie case, depauperata dei beni e offerta alle bande di curdi e dell’Organizzazione speciale (per lo più criminali liberati dalle carceri) che dovevano scortare i convogli. Si diede così il via a qualcosa mai prima visto nel mondo civilizzato. Nella marcia forzata i deportati subirono ogni genere di violenza: uccisioni, stupri, bambini uccisi nel grembo materno, rapimenti, donne violate e gettate in burroni per rubarne gli ultimi poveri averi che indossavano.

La morte di una nazione
I modi che la ferocia umana sa inventare, quando si scatena sugli innocenti, non hanno bisogno di ulteriori precisazioni perché, anche oggi sotto gli occhi di un’Europa incapace, sotto i nostri occhi indifferenti, si ripetono nel Vicino Oriente. Nel caso degli armeni, alla violenza umana si accompagnò il caldo, la sete, lo sfinimento, il tifo, il colera, i suicidi di madri disperate, l’Eufrate colorato del sangue di questi miserabili, fino a Der Zor tomba finale di chi aveva resistito fino all’ultimo, per morire insepolto in quel deserto. Così “morì una nazione”, secondo le parole dell’ambasciatore americano a Costantinopoli Henry Morgentau. Dei due milioni e più di armeni che popolavano l’Impero ottomano, circa trecentomila riuscirono a rifugiarsi nell’Armenia russa, dove non per la violenza degli uomini, ma per la povertà assoluta, le spaventose condizioni igieniche e le epidemie furono anch’essi decimati. Pochissimi sopravvissuti riuscirono dopo la guerra a riparare all’estero, ma un milione e mezzo di armeni estirpati dalle proprie case e dalla propria terra, incontrò una morte inconsolata.

Le testimonianze e il negazionismo
Nel 1946 un giurista polacco, Raphael Lemkin, studiando gli avvenimenti che accompagnarono la prima e la seconda guerra mondiale, creò la definizione di genocidio, che applicò ai massacri di massa subiti dagli armeni, considerato il primo genocidio conosciuto nella storia moderna. Il concetto di genocidio, riconosciuto dall’ONU nel 1948, comporta alcuni elementi, quali la precisa volontà di distruzione di un gruppo etnico, nazionale o religioso, la sistematicità dell’esecuzione e l’imprescrittibilità, in quanto delitto contro l’umanità.

Le infinite testimonianze raccolte, non solo dai sopravvissuti, ma soprattutto da stranieri, consoli, ambasciatori, missionari, presenti nelle varie regioni dell’Impero, non lasciano dubbi. Merita un particolare ricordo l’impatto che ebbe anche in Germania, non inconsapevole di ciò che accadeva, l’azione del tedesco Armin Wegner, volontario della Croce Rossa, che documentò con fotografie gli orrori visti e riuscì a portarle in Europa. Non c’è alcun dubbio che la responsabilità immediata è stata del governo dei Giovani Turchi – a questo proposito come sottovalutare la sensibilità di elefante di una parte della sinistra italiana che si è fregiata di questo titolo, nonostante le ripetute richieste della comunità armena di evitarlo in tutti i modi? – e di Mustafa Kemal che portò l’ultimo attacco agli armeni rifugiatisi oltre il confine, nell’Armenia russa. Forse è questo il nodo che ha impedito finora alla Turchia di riconoscere il genocidio: Kemal Atatürk è il fondatore della Repubblica e padre della patria. Come intaccarne la memoria, riconoscendo una sua partecipazione al “grande Male”?

Avere il coraggio della riparazione
Un secolo è passato: sembra incredibile a me, fra gli ultimi indiretti testimoni, che adolescente chiedevo a mia mamma: – «ma perché i nonni e gli zii sono stati uccisi»? E ne ricevevo la risposta asciutta e agghiacciante: «perché erano armeni». Semplicemente così, da allora altre stragi, altri genocidi di popoli (anche se il termine non deve essere inflazionato); la memoria non serve ad evitare che si rinnovi  la ferocia degli uomini. Piuttosto è la via paziente e ferma della richiesta di giustizia, «non c’è pace senza giustizia», che ancora oggi devono percorrere gli armeni. Qualcosa timidamente forse si muove in Turchia: sono frange di intellettuali onesti che rivendicano il diritto di ripensare la propria storia, soprattutto dopo l’assassinio di Hrant Dink giornalista armeno, cittadino turco (uno delle poche decine di migliaia di armeni che ancora vivono sulla terra dei padri), che perseguiva l’ideale della riconciliazione. Sono armeni islamizzati, bambini e bambine rapiti o raccolti orfani in famiglie turche (hanno salvato la vita, ma perso la loro identità) che, oggi, cominciano a manifestarsi e a rivelare le loro storie…. Non si può essere nemici in eterno, diceva un’antica principessa armena, ma occorre uno sforzo eroico e sincero da parte del Governo turco, che deve  riconoscere la pagina nera della propria storia e riparare l’ingiustizia commessa. Gli armeni aspettano questo momento. La riparazione non sarà, purtroppo, l’impossibile ricostruzione di un mondo perduto per sempre – anche se un atto simbolico porterebbe solo onore alla Turchia –  non sarà neppure il restauro o la ricostruzione dei mille monumenti che segnavano la vita sociale degli armeni, ai fini di incrementare il turismo. Dovrà essere, oltre che la restituzione dei beni alle poche istituzioni che, in Turchia, possono ancora goderne, soprattutto la piena e conclamata valorizzazione di ciò che gli scomparsi hanno creato di civile, libero e umano nei lunghi secoli della loro permanenza sul suolo patrio.

Gabriella Uluhogian
Già docente di Lingua e letteratura armena presso l’Università degli Studi di Bologna

4 Commenti su “CENT’ANNI! DAL GENOCIDIO DEGLI ARMENI”

  1. Grazie!!!
    Che dolore
    Gli stessi sentimenti provati alcuni anni fa,durante e dopo la lettura del libro ‘La masseria delle allodole’ di A.Arslan
    Divulgherò.

    Clotilde Trimboli 25 aprile 2015

  2. la Turchia vuole entrare in Europa; una delle condizioni deve essere il riconoscimento del genocidio armeno.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Articoli correlati

ESSERE, DIVENTARE VIANDANTI
ULISSE E ABRAMO

LE COMUNITÀ CRISTIANE
TRA PLURALISMO E UNIFORMITÀ

ESSERE, DIVENTARE VIANDANTI
CAMMINARE, VERSO DOVE?

VERSO L’ASSEMBLEA DEI SOCI
Parma, 30 novembre 2024

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie tecnici da parte nostra. [ info ]

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi