La teologia parla della storia della salvezza
[…] La teologia attuale ha spostato la direzione dei suoi interessi e il metodo della sua indagine. Del resto, essa si muove nella riflessione cristiana rinnovata dal Concilio. Così quando parla di Dio e dell’uomo ha una impronta decisamente biblica, per superare la tentazione razionalizzante e presuntuosa della ragione umana. Di Dio e dell’uomo non si può parlare che nel contesto operativo e concreto dei rapporti salvifici. Parlerà di Dio solo nella luce del Cristo, che ha reso manifesto il volto del Padre suo in mezzo a noi; così dell’uomo parlerà in rapporto a Cristo, come creatura che ha senso e significato solo in Lui. In questo modo si abbandonano temi classici e speculativi più vicini alla filosofia che alla Rivelazione […]. Si fa strada, nella teologia, la convinzione che non si può parlare di Dio se non si parla insieme anche dell’uomo, come non si può parlare dell’uomo se non si parla insieme anche di Dio. Questo temperamento storico e concreto trova la sua giustificazione e la sua maggiore attendibilità nel fatto appunto che la Parola di Dio, comunque essa si moduli e si esprima, è sempre una Parola detta all’uomo e mai detta per essere detta. La Parola di Dio non è per una dottrina, ma per una salvezza; non è per una ideologia, ma per una storia. E’ una Parola che è sempre l’annuncio di qualcosa che si compie. Tutto nella Rivelazione è Parola ed evento, annuncio e realtà, dire e fare. Quando Dio parla, viene, opera, entra nella storia. Il vertice e la sintesi di questa economia è appunto Cristo, che è, insieme, il massimo del dire di Dio, essendo la Parola eterna del Padre, e il massimo del fare di Dio, perché Egli opera la salvezza. Altrettanto la teologia: essa deve trascrivere questa metodologia divina, cointeressandosi contemporaneamente di Dio e dell’uomo saldati insieme nel progetto d’amore resosi palese in Cristo. Forse, un accento polemico rende preferenziale l’attenzione sull’uomo, nella preoccupazione di ricuperare un discorso che si doveva fare prima e non si è fatto: quasi una volontà morale di recupero. Si può capire: il tempo e l’esperienza equilibreranno questa accentuazione appassionata. Ma è anche vero che essa è in grado di meglio esprimere il dono di Dio che la Chiesa fa agli uomini. Lo rende più credibile, non in modo apologetico nel senso di più comprensibile, ma in modo più omogeneo all’intenzione di Dio che attraversa tutta la Rivelazione. In questo senso, anche se con diversi squilibri, la teologia attuale si presenta in modo più vero, perché portata dal Concilio stesso a riflettere in questa maniera più aderente alla Parola di Dio. Si pensi, ad esempio, al primo e secondo capitolo della “Lumen Gentium” . Essa è onesta e fedele in questa fatica. Ha bisogno solo di tempo per maturare meglio e di più.( Riflessioni sulla teologia post-conciliare,Roma 1970,pp.24-25)
Chiesa come società e chiesa come comunione
E’ chiaro per tutti, ormai, che una delle intuizioni più felici del Concilio è l’aver descritto la chiesa come una “comunione”. L’idea cambia l’immagine di chiesa, che cessa di essere “piramidale”. Il centro della chiesa non è più in un “vertice” che sta “in alto”, ma in un “centro” che sta “dentro” e nel “mezzo”. Il laicato ritrova, in questa prospettiva, il suo “luogo” connaturale, nel senso che tutto quanto si differenzia, nella chiesa, sta sul comune fondamento del “battesimo” che tutti unisce nell’unico amore di Dio, così che nessuno è “più chiesa” di un altro. Perciò, come esistono compiti gerarchici, esistono compiti laicali. La costituzione dogmatica Lumen Gentium presenta, infatti, la chiesa innanzi tutto come “comunione” fondata in Dio ( cap.I ),la cui figura storica si manifesta quale “popolo” di lui ( cap.II ), così che su questa realtà comune si evidenziano i compiti gerarchici e laicali ( cap.III e seguenti). E’ questo lo sfondo sul quale è venuto in luce il discorso attuale sui diversi “ministeri” della e nella chiesa e, in particolare, sul” ministero coniugale”.
I coniugi: servi del Signore
Lo Spirito di Cristo è Spirito di amore. Di un amore che “serve” e mai di “potenza”. “Servo” è Cristo stesso. Egli non chiede mai all’uomo qualcosa che egli non abbia praticato per primo.”Servo”, dunque, onde anche gli uomini siano “servi” al modo stesso di lui. Non in un confronto etico ed esterno, da morale dei buoni propositi; ma sul fondamento della “conversione”, che rovescia fino in fondo al cuore l’interesse dell’uomo, e gli chiede di diventare protagonista degli interessi di Dio. Ciò vale per ogni ministro, chiamato a stare nella sequela di Cristo. Vale, anche, per gli sposi ministri, in virtù del sacramento nel quale sono stati graziati. Essi devono possedere lo “Spirito” del “servizio”. Lo “Spirito” è l’amore stesso di Dio, diventato dono all’uomo. Stare nello “Spirito” significa , allora, che i coniugi sono chiamati ad abbandonare la logica del possesso in ogni sua forma. Entrando nell’umiltà evangelica di Maria, che proclama, nell’obbedienza alla parola del suo Dio, di essere la “serva” di lui. I coniugi saranno “servi” dentro questa stessa obbedienza. Il che vuol dire che vivranno in maniera de privatizzata, tenendo pronto il loro matrimonio al compito ecclesiale e sociale al quale Dio lo chiama.( Gli sposi servi del Signore,Bologna 1979; pp.22-23; 234-235)
La dimensione profetica dell’ecumenismo
Si richiama l’attenzione sul fatto che l’ecumenismo è emerso e si è imposto come una esperienza ecclesiale. Si vuol dire che il dialogo avviato dai cristiani non si è mai proposto come un fatto privato, lasciato alla discrezionalità individuale dei singoli o dei gruppi. Si può constatare, infatti, che il dialogo è certamente emerso attraverso l’intelligenza e l’azione di singolari personalità profetiche, ma queste vi si sono impegnate facendosi carico di una coscienza tale da richiamare la Chiesa dalla sua distrazione e dal suo disimpegno. L’interesse, dunque, per la storia di questa esperienza è sollecitato dal fatto, verificato dall’interno stesso del suo svilupparsi, che questa esperienza è venuta alla Chiesa dallo Spirito di Dio. Il che vuol dire che essa è storia di conversione e memoria permanente di grazia. Luogo, quindi, che in continuità, rende testimonianza a questo Spirito, che ha fatto risuonare l’Evangelo dell’unità e ha portato la Chiesa al suo giudizio. Entrare in questa memoria è, dunque, inoltrarsi nel movimento dello Spirito, per cogliere la volontà di Dio sulla Sua Chiesa. Una memoria attiva, perché attivo e provocatorio è questo giudizio. Rifarsi, perciò, a quanto è già accaduto non è acquietarsi nell’immobilità del passato, ma disporsi ad incontrare il giudizio di Dio in atto nella Chiesa, per essere messi nuovamente in questione. Il che significa che ripercorrere la storia dell’esperienza ecumenica non è ricupero estetico o giuridico della memoria, per custodirla e ripeterla. E’, invece, rifarsi al Kairos di allora per essere certi che il movimento viene da Dio, così da scoprire la forza dinamica che è messa in atto dalla sua provocazione. Il “passato” che sta sotto l’economia dello Spirito è sempre attesa e promessa di futuro, in modo che l’oggi, che è il futuro di ieri, stia esso pure in questa economia e diventi possibilità per il non ancora accaduto. Che è come dire che il passato chiede di essere rivisitato come scuola di fedeltà e di obbedienza dinamiche. La precisazione va contestualizzata nella linea della tradizione della Chiesa, qui intesa come la possibilità che le è data di mantenersi contemporanea, nel variare dei luoghi, delle persone e dei fatti, al mandato evangelico. Possibilità che viene dallo Spirito.[…] L’ecumenismo, come esperienza di grazia, va, dunque, rivisitato come momento interno e qualificante della sStoria della Salvezza. Sulla linea, di conseguenza, della “speranza” che essa mette in atto nella Chiesa, così da stare sempre in tensione escatologica. […] Ha detto Paolo VI : “L’ecumenismo è una cosa nuova rispetto alla lunga e dolorosa storia che ci ha preceduto”. La ragione: “L’ecumenismo è una cosa arcana, che affonda le sue radici nei misteriosi disegni di Dio” (Corso di teologia dell’Ecumenismo, Brescia 1985, pp.14-15-16).
Non amo la croce, amo il Tuo amore sulla croce
La questione è la salvezza del mondo e, in questa e mai senza questa, la nostra salvezza personale. Mi chiedo, e spero seriamente, che senso avrebbe il salvarmi se qualcuno rimanesse fuori salvezza. Quel qualcuno rimarrebbe la spina profonda di un problema non risolto che sta davanti a Dio per tutta l’eternità come una domanda sospesa che chi veramente ama non potrebbe non rivolgere a Dio stesso. Meglio. Io non vorrei essere salvato anche se uno solo ne restasse fuori. Credo di dire questo non con orgoglio o con pretesa davanti a Dio, ma dall’interno della vita stessa di Cristo Gesù, dei suoi atti e delle sue parole. L’ ”amatevi come io vi ho amato” porta in questa direzione di pensieri. Era “luce” e le “tenebre non l’hanno compresa”; “venne nella sua casa e i suoi non l’hanno ricevuto”. Eppure non se ne è tornato indignato e irritato nel suo Cielo. “Ladri e prostitute” vi precederanno nel Regno dei Cieli” sta a dire che “vi precederanno” e non “vi escluderanno”. La “salvezza” è certa: questo è il Vangelo. La” dannazione” è solo una possibilità. Cristo ha rotto l’equilibrio della bilancia. Egli ha messo tutto il suo peso, invincibile e assoluto, sull’unico piatto dell’amore che benedice e ama. Questa è la sua giustizia, che non ha nulla a che vedere con l’attenzione neutra dell’ago che sta implacabilmente fermo e impassibile tra i due piatti. Allora e si riprende il discorso: noi viviamo per gli altri e non per noi stessi. L’esser lì dove stanno gli altri è per noi il luogo di Cristo e della Salvezza. Con un’attenzione in più per non perdere in maniera ancora più sottile la giusta misura: gli altri non sono, per il bene che a loro si vuole e si fa, il prezzo del biglietto per il nostro Cielo. Il lavoro ben fatto e, perciò, ben pagato. Gli altri sono quelli, e radicalmente, con e per i quali ha senso, in Cristo, la nostra vita. Questo è il significato del vivere la fedeltà a Lui in maniera “deprivatizzata”. Per questo le nostre intenzioni sono le grandi intenzioni del Regno di Dio. Più dilatate ancora della pur grande intenzione di Dio che è la Chiesa. Non bisogna mai dimenticare che come noi non siamo il fine di noi stessi, altrettanto la Chiesa non è, né può essere, il fine di sé stessa. E’ il pericolo maggiore del suo e del nostro trionfalismo più o meno conscio. Sulla Croce non ci sta Cristo con Giovanni e Maria. Ci sta Cristo con un maledetto che muore con Lui e con Lui apre il Paradiso del Regno per tutti i maledetti della terra. Giovanni e Maria stanno ai piedi della Croce per imparare e ricevere l’eredità. La Chiesa sta ai piedi della Croce per mostrare non il suo stare ai piedi della Croce ma per aprire un passaggio oltre se stessa verso i maledetti amati e accolti da Cristo. Noi si vive per questo e per nient’altro che questo. (Sul confine. Gli ultimi anni di don Germano Pattaro ,Bologna 2001; pp. 41-42)