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DA QUALE RESISTENZA E’ NATA LA REPUBBLICA?

Alessandra Deoriti

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Molto è stato scritto, sia in chiave propriamente storiografica, sia in forma memorialistica o diaristica, sul periodo della guerra e della Resistenza: la bibliografia è imponente e va tuttora aggiornandosi, mentre nuove generazioni di studiosi subentrano ai precursori e agli storici dell’età di mezzo, ormai distanziandosi da una lettura ideologica ,“militante” ed epica (la Resistenza come fenomeno corale, di popolo, eroicizzata), per offrire di quel tempo drammatico e densissimo una visione più realistica e sfaccettata.

Una guerra civile
Nell’editoriale del n.29 della Newsletter “EsseNonEsse”  ricordavo la nobile figura di Claudio Pavone (1920-2016) che per tanti è stato maestro e capofila – non solitario – di una revisione dell’approccio alla vicenda resistenziale tanto coraggiosa quanto immune da cedimenti al “revisionismo” in senso deteriore.

Il suo celebre tomo “Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza” (Bollati Boringhieri, Torino 1991) sdoganava fin dal titolo, restituendola pienamente all’ambito di un’indagine storica anche appassionata, ma non subalterna al “politicamente corretto”, un’espressione che per decenni era stata appannaggio delle Destre e perciò ostracizzata con determinazione dalla vulgata antifascista e democratica.

Osando e usando il termine di “guerra civile” l’autore non vuole affatto sottostimare il ruolo decisivo della Resistenza, ancor più che per le sorti della guerra in Italia, per marcare la discontinuità rispetto al ventennio fascista e piantare i semi del futuro democratico di un’Italia riabilitata; ma intende, con gli strumenti e i metodi del proprio mestiere, raccontare i fatti così come sono accaduti.

Vale a dire, trattare l’argomento senza schematismi pregiudiziali, senza riduzionismi arbitrari, senza soggezioni alle liturgie celebrative della memoria pubblica che ha spesso – volutamente o meno – privilegiato taluni aspetti omettendone altri, esaltato i valori eroici della Resistenza sottacendone le contraddizioni e le ombre e facendone un mito fondativo dell’Italia repubblicana: come ogni mito, portatore di elementi di verità insieme a costrutti mentali assertivi.

Un fenomeno di minoranze
La visione semplificata e monumentalizzata della Resistenza, certo più nel ritualismo delle commemorazioni che nella produzione scientifica, ma anche in talune nicchie di storia militante, ha dato luogo a una narrazione eccessivamente rettilinea, spesso apologetica, come di un grande collettivo “risorgimento” della nazione dai guasti del fascismo e della guerra.

Il che è vero, in parte, purché non si cancelli il dato reale del “prima”, la passiva accettazione del regime che ha caratterizzato la maggioranza della popolazione nei cosiddetti anni del consenso; né l’altro dato reale di una vasta “zona grigia” che circonda e sovrasta – com’è ovvio – i focolai di resistenza attiva al nazifascismo, ora con simpatia collaborativa ora con diffidenza e sospetto che a volte si alternano in seno alle medesime persone, in relazione al montare del rischio costituito dalla presenza sul territorio delle bande partigiane, e della concomitante possibilità di rastrellamenti a tappeto[1]

Che la Resistenza armata sia stata un fenomeno di minoranze, almeno fino alla vigilia dell’ultima stagione insurrezionale delle città quando, con  tedeschi e repubblichini ormai in rotta, le formazioni partigiane si gonfiano di uomini, è un fatto assodato da sempre; e la pur utile categoria di “resistenza civile”, elaborata più tardi in sede storiografica per evidenziare il sostegno offerto da tanta gente comune (per non dire degli operai protagonisti dei grandi scioperi nelle industrie del Nord) agli obiettivi della lotta di liberazione, non basta ad affermare un generalizzato coinvolgimento della popolazione. Tranne che per il dato elementare, pre-politico, generalissimo, della insopportabilità della guerra e di un diffuso desiderio di pace e normalità.

Visioni diverse e divergenti
La breve durata – venti mesi – del movimento di resistenza in Italia, e la sua prevalente concentrazione nel centro-Nord, in rapporto all’andamento delle operazioni belliche sul territorio, con le strozzature all’avanzata alleata costituite dalla Linea Gustav e dalla Linea Gotica, dice di per sé molte cose sulla fisionomia variegata e plurale del movimento stesso, e spiega in parte le difficoltà di coordinamento e disciplinamento delle bande ad opera del Comitato di Liberazione nazionale, ove siedono i rappresentanti dei sei partiti antifascisti: opera lodevolissima quanto disperante, tenuto conto sia delle condizioni effettive di esercizio della direzione della lotta armata nel Paese (spaccato, occupato, disastrato), sia anche delle grandi differenze esistenti fra gli esponenti dei partiti, specie fra il Pci e il Partito d’Azione, per non citare i Democristiani.

Tanto nel pensare forme e metodi della lotta quanto nei progetti e nelle ipotesi politiche per il futuro, visioni diverse e divergenti, al punto che appare quasi prodigioso l’esito raggiunto: malgrado le diffidenze ideologiche o le scoperte rivalità, prevale la volontà di unire le energie in vista dello scopo comune e più urgente di affiancare gli Alleati per liberare l’Italia dall’oppressione nazifascista.

L’attendismo dei cattolici
In questo contesto, fluido e sempre drammatico, complicato dai non facili rapporti con il Governo del Sud e dall’atteggiamento cauto degli anglo-americani, non di rado a loro volta diffidenti nei confronti di una guerriglia della quale cercano l’appoggio in determinati frangenti ma di cui temono la politicizzazione, la Resistenza vede anche la presenza, disseminata, di tanto mondo cattolico. La Dc non esprime un significativo protagonismo nel primo tempo resistenziale, e, perfino stando a ricostruzioni interne a quest’area, il suo gruppo dirigente adotta una linea prevalentemente attendista, mentre ci sono cattolici in quanto tali, magari in quel Partito confluiti dopo la guerra, che sembrano rispondere prontamente a quello che Pio XII definisce l’“appello dell’ora”, nel famoso radiomessaggio del Natale 1942.

Per ragioni di coscienza, per ragioni di amicizia fraterna con qualcuno che ha già espresso la sua scelta, per le stesse ragioni inizialmente utilitaristiche di sfuggire alla cartolina precetto della R.S.I.: mille le motivazioni possibili, sfilacciate spesso, più o meno nobili e lucidamente meditate. Parimenti, ci saranno altri cattolici che resteranno a guardare; altri ancora, laici o presbiteri o religiosi, che non sapranno decidersi a violare l’ordine costituito, ancora altri che di quell’ordine si faranno convintamente paladini.

La difficile rielaborazione della Chiesa
Non è stato sicuramente facile, per la Chiesa dell’immediato dopoguerra – Chiesa, va ricordato, più di oggi avvezza a pensarsi come organismo coeso – rielaborare la propria traversata del ventennio mussoliniano e dei travagliati mesi della Resistenza. In ciascuna comunità, presso i campanili e le canoniche che spesso avevano accolto gli sbandati della grande dissoluzione dell’esercito all’indomani dell’8 settembre, ma spesso pure ospitato i primi nuclei di gruppi di resistenza (come nella canonica di Vado, nel bolognese, presso don Eolo Cattani), si piangono i morti della guerra e, insieme, si constata quanto la guerra abbia lacerato il tessuto comunitario.

In talune aree del Paese, specie nel cosiddetto “Triangolo rosso”, il regolamento di conti con collaborazionisti veri o presunti prolunga le violenze e le uccisioni, a parti invertite, anche nei mesi  seguenti la chiusura formale delle ostilità: un desiderio viscerale, arcaico, di giustizia sommaria che preceda i tempi lunghi dei tribunali e l’attesa deprecata amnistia del 22 giugno 1946, esplode in azioni vessatorie od omicide che colpiscono anche un discreto numero di preti, fino al noto caso del reggiano don Umberto Pessina.

Nelle diocesi dell’Emilia “rossa”, il buon governo complessivamente accreditato dalla storia al Partito di maggioranza non basta a disarmare gli spiriti di una Chiesa che si sente accerchiata. E mentre anche la memoria ufficiale della Resistenza tende a divenire monocromatica, quasi sia stata solo “rossa”, si intuisce – senza qui poter sviluppare oltre il discorso – come mai la chiesa abbia tanto faticato e tardato a riappropriarsi della propria, non indegna, storia di partecipazione a quella pagina resistenziale “luminosa e viva” – così definita nel 1975 da mons. Luigi Dardani, vescovo di Imola[2].

Alessandra Deoriti
Membro della redazione della rivista “Il Regno”.
Referente del gruppo Sostenere, Non Sopportare (EsseNonEsse) di Bologna, aderente alla Rete dei Viandanti


[1] Per questi aspetti, nell’area di Monte Sole, si veda ad es. Margherita Ianelli, Gli zappaterra. Una vita, Baldini-Castoldi, Milano 2002.
[2] Per una più compiuta articolazione del discorso, rinvio al mio saggio “Monte Sole dopo Monte Sole”, in A. Deoriti – G. Turbanti (a cura di), La Chiesa e la memoria divisa del Novecento, Pendragon, Bologna 2016, pp,.293- 351 e, ivi, alla testimonianza di don Giulio Malaguti, pp.353-360.

1 Commento su “DA QUALE RESISTENZA E’ NATA LA REPUBBLICA?”

  1. Come presidente dell’ANPI di Busseto condivido larga parte delle riflessioni contenute nell’articolo, che mi è stato segnalato dall’amico Mario Calidoni.
    Continuate su questa via di ricerca.
    Adriano Concari

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