LA RIFORMA LITURGICA
ALLA PROVA DELL’INCULTURAZIONE
Andrea Grillo
Il titolo e l’attacco del documento Magnum principium (3.9.2017) si rifanno ad un “grande principio” affermato dal Concilio Vaticano II, ossia alla “comprensione dei testi liturgici” da parte del popolo di Dio, per assicurare la partecipazione all’azione celebrativa come “culmine e fonte” di tutta la azione della Chiesa.
Un paradosso
La storia del “grave compito” di tradurre i testi liturgici ha conosciuto diverse fasi dopo il Concilio, ma negli ultimi 20 anni aveva visto, progressivamente, l’affermarsi di una sorta di paradosso: nel 2001 veniva imposto un principio assoluto di “traduzione letterale” (Istruzione Liturgiam authenticam) [1], come garanzia della fedeltà al testo latino, che aveva reso di fatto impossibile ogni buona traduzione.
Le Conferenze Episcopali si trovavano pressate da una tensione irresolubile: o obbedivano alla normativa dell’Istruzione, e traducevano in modo incomprensibile per il loro popolo; oppure traducevano in modo comprensibile, ma non vedevano approvate le traduzioni da parte della Congregazione romana.
Dal 2001 il disagio era sempre più cresciuto, fino alle proteste esplicite che negli ultimi anni erano arrivate dagli episcopati tedeschi, francesi, statunitensi, canadesi, italiani… In realtà il “blocco istituzionale” dipendeva da un duplice blocco teorico, che pretendeva di garantire la fedeltà secondo due principi troppo drastici: si imponeva di tradurre letteralmente e di tradurre senza interpretare. Un latino idealizzato era soltanto lo schermo di una invincibile paura della riforma liturgica e della forma di Chiesa che da essa sarebbe scaturita.
Quattro principi
Pur nella sua stringatezza di due sole paginette, che intervengono soltanto su un articolo, il numero 838, del Codice di diritto canonico, il documento papale non rinuncia ad uno spazio di “argomentazione teologica” nel quale troviamo affermati almeno quattro principi che non ascoltavamo con tanta chiarezza da quasi cinquant’anni:
• Il “grande principio” dell’esigenza di comprensione della preghiera liturgica da parte del popolo.
• Il principio per cui la “parola” è mistero, ma ciò non dipende dalla “incomprensione”, bensì dalla profondità inesauribile del suo significato.
• Il terzo principio è la “competenza episcopale sulle traduzioni”, che viene ribadita con forza, come eredità conciliare e come esigenza intrinseca al rinnovamento della vita liturgica del popolo di Dio. La composizione tra esigenze degli Episcopati ed esigenze della Santa Sede trova, con la riforma del Codice, più facile e felice correlazione.
• Il quarto principio è una “teoria della traduzione”, bene espressa nella frase: “fideliter communicandum est certo populo per eiusdem linguam id, quod Ecclesia alii populo per Latinam linguam communicare voluit” ossia “bisogna comunicare ad un certo popolo nella sua lingua ciò che la Chiesa ha voluto comunicare ad un altro popolo con la lingua latina”.
Questa formulazione indica bene la importanza di tradurre non parola per parola, ma da cultura a cultura. Ciò che deve essere comunicato – la parola della salvezza – deve trovare espressione diversa quando entra in lingue e culture diverse.
La corrispondenza tra lingue non è statica, ma dinamica. Irrigidire il “contenuto” in parole fisse conduce, irreparabilmente, a traduzioni incapaci di comunicare. L’esigenza di un “glossario comune” non contraddice, ma giustifica questa scelta ordinaria.
Fedeltà al testo e ai destinatari
Una delle conseguenze di questo documento è una preziosa riflessione sul tema della “fedeltà”. Che cosa significa, infatti, essere “fedeli al testo”? Essa comporta una duplice fedeltà: non solo al testo, ma anche al destinatario. Per garantire questa duplice fedeltà, non è sufficiente una competenza centrale, ma è decisiva anche una competenza locale.
La logica di Magnum principium è quella di una “riconsiderazione della periferia”: per rendere pienamente il significato di un testo liturgico, originariamente latino, dobbiamo entrare nella lingua del popolo non solo con la testa, ma anche con il corpo. Questo possono farlo non anzitutto funzionari romani, ma Vescovi in loco. Una fedeltà solo letterale contraddice la complessità della struttura ecclesiale e della storia dei popoli. Il riferimento al Concilio Vaticano II è l’orizzonte in cui per essere fedeli alla tradizione occorre riconoscersi la possibilità di cambiare lingua.
Non si può tradurre senza interpretare
Un secondo aspetto, che dobbiamo considerare nel documento, è il superamento della illusione che si possa tradurre senza interpretare. Dietro alla distinzione tra “recognitio” e “confirmatio”, introdotta dal documento, sta, in fondo, la consapevolezza che non è possibile un atto di traduzione reale ed efficace, che non si cali nella particolare interpretazione che ogni lingua “diversa” offre del testo latino. Per passare dal latino alle lingue parlate occorre non semplicemente una trasposizione lessicale, ma sempre anche un’interpretazione culturale, esistenziale, storica, sociale.
Quella che sembra a prima vista una distinzione giuridica e fredda tra procedure, permette di far entrare la freschezza e la ricchezza delle vite dentro le parole della liturgia, poiché restituisce autorità alle Conferenze Episcopali locali. Una teologia della liturgia partecipata e un’ecclesiologia di comunione sono il presupposto e l’effetto di questa importante riforma del codice. E l’unità è garantita non dall’arretrare sul latino, ma dall’avanzare nella traduzione delle lingue del popolo.
In attesa di un nuovo sviluppo
Il documento Magnum principium sblocca la vita della Chiesa che celebra, ma rivela anche un grande desiderio di nuove motivazioni: tale desiderio dovrà essere colmato da una Nuova Istruzione, che sappia uscire dalle secche – non solo procedurali, ma argomentative – in cui ci aveva condotto Liturgiam authenticam. Forse la stessa commissione che ha elaborato questo “provvedimento d’urgenza” potrà occuparsi di stendere una nuova Istruzione, che consideri accuratamente, serenamente e distesamente tutto lo sviluppo della Riforma già compiuto, nonché quello ricco e fecondo che resta ancora da compiere.
Se Magnum principium ha riaperto un grande spazio ecclesiale di recezione della Riforma Liturgica, tale spazio, tuttavia, appare nel nuovo documento come una “foto in negativo”. Ossia dischiude competenze che devono prendere forma, carne e sangue. E devono farlo localmente. Senza poter mai escludere che la lingua nazionale sia vissuta non solo come “lingua di arrivo”, ma anche come “lingua di partenza” dell’atto di culto.
La fatica delle Chiese locali
Per intendere bene questo passaggio storico, torna assai utile la riflessione più generale proposta di recente da Marcello Neri, sulla rivista on-line “Settimananews”, sotto il titolo “Il respiro corto delle Chiese locali”: “Credo sia facile percepire una certa fatica, all’interno delle Chiese locali, nell’approfittare degli spazi sempre più ampi che papa Francesco viene preparando loro passo dopo passo. […] Come se le possibilità improvvisamente apertesi davanti a noi ci avessero lasciato senza fiato, quasi impauriti di non poter delegare più le responsabilità della fede, oppure di poterci trincerare dietro la scusa di un apparato ecclesiastico che rema compatto in direzioni opposte. […] il desiderio sincero è quello di ritradurre in loco la realtà di Chiesa che egli vuole inculcare nei nostri cuori, ma alla fine pressiamo il tutto in un corsetto che non ha nulla a che fare con essa”.
Questa osservazione vale, evidentemente, per tutto il complesso delle forme pastorali di una Diocesi o di un Chiesa nazionale. Ma si applica, in modo sorprendentemente efficace, anche alla recente storia della “recezione della Riforma Liturgica”. La quale, a partire da Liturgiam authenticam ha ricevuto, dal centro, un messaggio forte e chiaro: il corsetto doveva essere così stretto che non si riusciva più neppure a respirare.
Ora con Magnum principium si è aperto esplicitamente uno spazio istituzionale per cambiare stile e prospettiva e muovere speditamente non solo “sulle orme del Concilio di Trento e del Vaticano I”, ma anzitutto su quelle del Concilio Vaticano II.
Professore Ordinario di Teologia Sacramentaria presso la Facoltà Teologica del Pontificio Ateneo S. Anselmo.
[1] Si tratta della quinta Istruzione applicativa della Costituzione conciliare sulla liturgia (Sacrosantum concilium) emanata dalla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti il 28 marzo 2001.