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PER UNA CHIESA UMILE CHE SA ASCOLTARE

La tesi di Repole è che la cultura postmoderna – che critica le “grandi narrazioni” della modernità  e opta per una debolezza del vivere e del pensare – costituisce l’opportunità di riscoprire che la chiesa non è né forte né debole, ma umile, in quanto, mentre l’orgoglio rifiuta ogni legame, essa nasce dalla relazione e vive nella relazione.

La prima relazione è con Dio. La chiesa infatti è frutto della libera, amorevole, continua iniziativa divina. Da ciò la sua umiltà: non costituisce un fine in se stessa, non può idolatrare se stessa. Suo fine è rimanere a disposizione di quel Dio in virtù del quale è e vive: rinunciando ad ogni progetto che non sia quello salvifico del Padre, assumendo il modo di essere e di agire del Figlio, mantenendosi disponibile all’azione dello Spirito.

A partire dalla relazione con lo Spirito l’umiltà della chiesa si manifesta anche nel non poter prescindere dalla configurazione istituzionale. Questa, come chiarisce l’autore, comprende non solo il ministero ordinato e la sua struttura gerarchica, ma le Scritture canoniche, la Tradizione, il Credo, il dogma, i sacramenti, le strutture collegiali e sinodali, il diritto. E’ grazie a tutti questi elementi che la chiesa può insegnare, celebrare, pregare, servire gli uomini, emanare leggi. Ed è attraverso essi, dunque, che lo Spirito anima la chiesa e agisce in essa e che la chiesa vive la sua relazione con lo Spirito. La sua umiltà sta appunto anche in questo, nel non poter prescindere dalle istituzioni.  E però non può «esimersi dall’esprimere un giudizio su di esse e dall’essere giudicata, in ragione del modo in cui vive le sue istituzioni» (p. 65).

Poiché la fede nasce dall’annuncio e questo avviene nella chiesa, il credere è possibile solo in quanto esiste la chiesa e si partecipa di essa. L’io credente c’è solo nell’orizzonte del noi ecclesiale. Questo trova piena espressione nella categoria conciliare di popolo di Dio. E però, se è vero che ciascuno è cristiano in quanto appartiene all’unico popolo di Dio, è altrettanto vero che questa appartenenza implica la unicità e concretezza dei singoli. Deriva da ciò, tra l’altro, che la chiesa ha il dovere di «stare perennemente in ascolto di quanto lo Spirito le dice attraverso tutti e ciascuno dei cristiani che la abitano. Sta qui il senso ultimo della necessità delle strutture sinodali e collegiali nella chiesa» (80).

L’ultima relazione, indice della sua umiltà, è quella che la chiesa intrattiene con il mondo. Essendo sacramento di salvezza per tutti gli uomini non esiste per sé, ma per altri. E pertanto non può non avvertire che «la fedeltà a se stessa è vera solo quando è fedeltà al mondo e agli uomini concreti con cui, in diversi modi, si incontra” (p. 97).

Ecco: la chiesa nasce dalla relazione e vive nella relazione. Nel suo essere in relazione consiste la sua umiltà. E questa consente, ad un tempo, di abitare e inquietare la cultura postmoderna. Abitarla, condividendone la critica alle narrazioni forti; inquietarla, non consentendo alla debolezza del vivere e del pensare. Chiudendo il libro dobbiamo chiederci, come fa l’autore: Dove rintracciare una chiesa all’altezza della sua umiltà? Come aiutarla ad “abitare e inquietare” concretamente la cultura postmoderna? Nel saggio sono molti gli spunti in questo senso. Sta al lettore raccoglierli e svilupparli, nella consapevolezza che è di lui, anche di lui che si tratta.

Marco Bertè

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