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“TESTAMENTO BIOLOGICO”:
OBIEZIONE DI COSCIENZA O SCELTE IN COSCIENZA?

Paolo Benciolini

Il 31 gennaio 2018 è entrata in vigore la legge n. 219/17, che i media hanno riduttivamente chiamato del “biotestamento”. Uno dei temi più dibattuti riguarda la possibilità di esprimere, da parte dei professionisti sanitari che potrebbero essere implicati nella attuazione della legge, la “obiezione di coscienza”.
Al “biotestamento”?

Le questioni sono quattro
Quattro sono i temi che la legge considera. L’art. 1 regolamenta il cosiddetto “consenso informato” che trae origine dalla nostra Costituzione (art. 32).

L’art. 2 prende in esame le cure palliative e non si limita al tema della terapia del dolore ma lo estende anche al “divieto di ostinazione irragionevole nelle cure”.

L’art 4 sulle “disposizioni anticipate di trattamento” (DAT), consente alla persona maggiorenne e capace di intendere e di volere di esprimere “le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari”.

L’art. 5 prevede la possibilità di realizzare una “pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico (e l’équipe sanitaria). In entrambe queste due ultime ipotesi è prevista la possibilità di indicare un proprio “fiduciario”.

È dunque facile constatare come la questione relativa all’eventuale “obiezione di coscienza” non risulti circoscritta solo al “biotestamento”, ma vada presa in considerazione anche per le altre tre previsioni ora richiamate.

La legge non prevede l’obiezione di coscienza
Per quanto riguarda il “consenso informato”, l’art. 1 precisa che “il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo”.

Quanto alle previsioni dell’art. 2, non solo il medico “deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati”, ma può anche ricorrere alla “sedazione palliativa profonda continua” con il consenso del paziente.

Per quanto riguarda le disposizioni anticipate di trattamento, “il medico è tenuto al rispetto delle DAT” (art. 4). Infine, anche per la stessa “pianificazione condivisa delle cure” la legge prescrive (art. 5) che, una volta realizzata la stessa, “qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità”, “il medico e l’équipe sanitaria sono tenuti ad attenersi” ad essa.

Tuttavia, la legge non prende in considerazione una regolamentazione giuridica della obiezione di coscienza, esponenti autorevoli dell’episcopato italiano e responsabili di istituzioni sanitarie cattoliche hanno espresso analoghe osservazioni e ancor oggi auspicano che la normativa venga integrata sotto tale profilo.

Difficile prevedere l’obiezione di coscienza
La questione va esaminata sotto un duplice punto di vista: giuridico-normativo ed etico.

Una modifica della legge n. 219 che contemplasse l’inserimento di ipotesi di “obiezioni di coscienza” appare francamente difficile. Quanto all’oggetto stesso dell’obiezione, assai varie possono essere le espressioni di “volontà in materia di trattamenti sanitari” per quanto riguarda il “rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche o a singoli trattamenti sanitari”.

Se volessimo tentare un parallelo con la normativa sull’interruzione volontaria della gravidanza (art. 9 della legge n. 194/78), ci renderemmo conto che, mentre in questo caso la motivazione dell’obiettore è chiaramente ed unicamente volta a “non fare” un atto sanitario richiesto dalla donna (interrompere una gravidanza), nel caso delle DAT la situazione è assai complessa e può riguardare sia la richiesta di rinunciare a determinati interventi, sia di intervenire attivamente.

Il primo caso riguarda, ad esempio, le situazioni in cui il paziente chieda di rinunciare a tracheostomia, nutrizione o idratazione artificiale, terapie farmacologiche particolari. L’eventuale ipotesi di obiezione riguarderebbe dunque il “fare” contro la volontà del malato. Il secondo caso riguarderebbe la richiesta del paziente di essere sottoposto sedazione palliativa profonda (art. 2) o, soprattutto, di interrompere (cessare) il trattamento di sostegno artificiale della funzione respiratoria.

La richiesta ai sanitari potrebbe dunque avere per oggetto prestazioni diverse a seconda del paziente, della patologia da cui è affetto, delle prospettive della sua evoluzione e gravità. Ma sarebbe anche difficile una regolamentazione giuridica che tenga in adeguata considerazione le personali esigenze di “coscienza” di ogni operatore sanitario.

Difficoltosa potrebbe risultare anche la regolamentazione normativa di altri aspetti connessi con l’obiezione di coscienza, quali l’identificazione dei soggetti aventi titolo a sollevarla, i tempi e le modalità della sua espressione. Per l’attuazione corretta delle previsioni dell’art. 4, ma anche in tema di “pianificazione delle cure condivisa” il ruolo dell’équipe risulta non solo importante, ma addirittura indispensabile, il che comporta che il gruppo di operatori sia omogeneo rispetto alle proprie scelte. Di conseguenza, apparirebbe difficile ipotizzare il ricorso ad una dichiarazione preventiva di obiezione, la cui formula favorirebbe addirittura soluzioni di “comodo”, anziché provocare i sanitari ad un sistematico confronto, caso per caso, con la propria coscienza.

A quale coscienza appellarsi?
Ma occorre considerare, a questo punto, la prospettiva di carattere etico. Per facilitare l’identificazione dell’aspetto di maggior rilievo, è il caso di soffermarsi sulla richiesta della persona malata di procedere al distacco del respiratore, ipotesi da considerare non solo sotto il profilo delle DAT (persona allo stato privo di capacità di esprimersi, ma con disposizioni anticipate regolarmente espresse), ma anche da parte di persona cosciente (rifiuto ai sensi dell’art. 1, o nel contesto di una pianificazione condivisa delle cure). Essa – a mio avviso – potrebbe rappresentare l’unica eventualità in grado di sollevare interrogativi nella coscienza del medico.

Tuttavia, è necessario che il medico si interroghi se, con riguardo alla situazione concreta che è chiamato ad affrontare, dubbi e perplessità siano realmente espressione della coscienza personale o non piuttosto dell’inevitabile (e pur giustificato) coinvolgimento emotivo. L’interrogativo è su quale sia la “coscienza” alla quale il professionista sanitario potrebbe richiamarsi per negare la propria adesione alla richiesta di applicazione delle previsioni di legge (ma anche, come si è osservato, alla richiesta consapevole e attuale di sospensione delle cure da parte della persona malata).

Le considerazioni che ci si propone di formulare appaiono ispirate da due ordini di motivi tra loro collegati.

Il primo nasce dal fatto che siamo ora, per la prima volta, dinnanzi ad una legge che afferma la liceità delle scelte di fine vita sia da parte di soggetti consapevoli, sia mediante l’espressione di disposizione anticipata affermando, in entrambi i casi, il dovere del medico di rispettare tali scelte.

Il secondo – collegato al precedente – trae origine dalle prime esperienze dirette nell’ambito di situazioni che ora la legge prevede. La domanda è, appunto, se la “resistenza” o il “rifiuto” dei medici possano essere interpretate come espressione di una “coscienza” che sia personale e sufficientemente meditata. Quello che la legge n. 219/17 ci propone oggi è l’invito a riflettere sulle motivazioni di tali eventuali scelte.

Una difficile obiezione di coscienza
Non possiamo ignorare che la decisione di invocare la “obiezione” risulta in quale misura “inquinata” dall’esperienza (e dalla prassi) maturata negli ultimi quarant’anni in tema di interruzione volontaria della gravidanza. Le questioni che ora ci propone la legge n. 219 sono assai più complesse e variegate. L’attenzione alla “coscienza” richiede riflessione sulle ragioni delle proprie scelte e sulle loro conseguenze.

Una “coscienza”, dunque, che matura in una relazione dinamica (e critica) con se stesso (in quanto portatore di una educazione ricevuta, di comportamenti e valori tramandati dalla tradizione e dalla consuetudine, dalla formazione professionale, ecc.), ma anche con gli altri, a cominciare dalla persona malata (da ascoltare e comprendere nelle sue istanza, da onorare nella sua dignità di persona e da rispettare nelle sue scelte di libertà), per proseguire nella relazione non solo tecnica ma anche etico-deontologica con i propri collaboratori.

In questo impegno ad una riflessione, personale e di équipe, per poter pervenire ad una scelta “in coscienza”, non si potrà ignorare il valore costituzionalmente tutelato della libertà di autodeterminazione per ogni persona. Non possiamo dimenticare, infatti, che la nostra Costituzione contiene la base etica comune a tutti coloro che partecipano alla vita democratica del nostro Paese.

A parere di chi scrive, gli interrogativi che (comprensibilmente) la legge n. 219 pone agli operatori sanitari non possono trovare una soluzione a livello giuridico-normativo e l’eventuale tentativo di riproporre formule di “obiezione” analoghe a quella  utilizzata per l’obiezione alla interruzione volontaria della gravidanza risulterebbero decisamente improprie perché nelle questioni di fine vita la tutela costituzionale riguarda il rispetto del diritto all’autodeterminazione della persona malata. 

La deontologia professionale
Le norme deontologiche delle diverse professioni sanitarie e, in particolare, il Codice di Deontologia Medica, da tempo hanno preso in esame i temi ora contenuti nella legge n. 219.

L’ “obiezione di coscienza” è esplicitamente considerata dall’art. 22 del Codice di Deontologia Medica (“Rifiuto di prestazione professionale”) che così si esprime: “Il medico può rifiutare la propria opera professionale quando vengano richieste prestazioni in contrasto con la propria coscienza o con i propri convincimenti tecnico-scientifici, a meno che il rifiuto non sia di grave immediato nocumento per la salute della persona, fornendo comunque ogni utile informazione e chiarimento per consentire la fruizione della prestazione”.

Si tratta di una formula che appare, a chi scrive, particolarmente adeguata alla complessità del tema e che consente di modificare ogni singola situazione concreta senza i vincoli che, inevitabilmente, una eventuale regolamentazione giuridica della obiezione di coscienza in ordine alle previsioni della legge n. 219 finirebbe per comportare. Ma a due condizioni che riguardano il ruolo degli ordini professionali.

La prima è che tali istituzioni si sentano direttamente impegnate a realizzare, secondo la propria competenza, quanto previsto dai commi 9 e 10 dell’art. 1: “garantire la piena e corretta attuazione dei principi di cui alla presente legge, assicurando l’informazione necessaria ai pazienti e l’adeguata formazione del personale” e, rispettivamente, “la formazione iniziale e continua dei medici e degli altri esercenti le professioni sanitarie in materia di relazione e di comunicazione con il paziente, di terapia del dolore e di cure palliative”.

La seconda condizione è che, dopo aver sollecitato una necessaria e profonda riflessione dei propri aderenti in ordine alle scelte “in coscienza”, assumano anche, se del caso (rifiuti non motivati o scelte di comodo) quelle iniziative di carattere disciplinare che la legge istitutiva degli ordini professionali loro attribuisce.

Paolo Benciolini
Già Ordinario di Medicina Legale nell\’Università di Padova e già membro del Comitato Nazionale per la Bioetica.
Membro della redazione della rivista “Matrimonio”, che aderisce alla Rete dei Viandanti.

Altri articoli sul tema presenti nel sito:
Benciolini P., Fine-vita, sapersi confrontare con i segni dei tempi

[Pubblicato il 24.1.2019]

2 Commenti su ““TESTAMENTO BIOLOGICO”:
OBIEZIONE DI COSCIENZA O SCELTE IN COSCIENZA?”

  1. La riflessione di Paolo Benciolini è sensibile e profonda. A Trento la Commissione diocesana della salute ha organizzato un convegno sul “Testamento biologico”. La legge è stata giudicata positivamente dai tre esperti invitati, Elena Bravi, Edoardo Geat, Lucia Galvagni, nonostante le critiche del vescovo Lauro Tisi. Soltanto l’assistente ecclesiastico d.Piero Rattin ha sollevato il problema dell’obiezione di coscienza. Gli ha risposto il teologo moralista Carlo Casalone: a chi dovrebbe obbiettare il medico? alla richiesta del suo paziente?

  2. QUALI “SEGNI” E QUALI TEMPI
    L’avanzamento degli studi scientifici dei tempi che stiamo vivendo (nell’infinitamente grande le sonde vanno oltre Marte e nell’infinitamente piccolo non preoccupano più le staminali, ma le biotecnologie e le neuroscienze) interpella una nuova coerenza con i “segni” della storia umana. Il fine-vita avrà sicuramente una determinazione di legge: deve essere una “legge”, non un alibi di comodo buono per futuri contenziosi ereditari (se qualche nipote verrà accusato da qualche cugine di avere “aiutato” indebitamente il nonno).
    Detto questo, le leggi ordinarie (per esempio quelle fiscali) non si obiettano. La 194 sull'”interruzione volontaria di gravidanza” è – a mio avviso – un'”anomalia”, accettata perché fu l’unico espediente per poter approvare la legge. Anomalia perché impropria l’analogia con l’ “obiezione al servizio militare” che si riferiva ad una obbligo costituzionale.
    Le chiese (e i cattolici) non possono non sapere l’urgenza dei tempi, ma l’abitudine ad erogare certezze deve trovare un’uscita coraggiosa per dare senso ai nuovi “segni”: divieti, benedizioni e pastrocchi intermedi non possono più sostituire il dubbio metodologico condiviso, nella ricerca culturale, scientifica e morale dei significati in tempi destinati – a carico del nostro discernimento – a restare umani.
    giancarla codrignani

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