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IL MIRACOLO NELLA FERIALITA’ DELL’ESISTENZA

La cosa che più mi ha colpito, leggendo il libro, è un’introiezione talmente salda e radicata della fede, da lasciare Dio, di fatto, in sottofondo. Come se si trattasse di un incontro amoroso talmente intimo e profondo, che le parole potrebbero “sciupare”. Certo, la scelta di vita della Zarri è tutta religiosa. Ogni suo gesto quotidiano parte da lì: i suoi giorni e le sue notti sono scanditi dalla preghiera e dalla comunione con il Signore. Ma, ripeto, la discrezione ha il sopravvento. E questo crea immediatamente un ponte con il lettore agnostico, interessato quanto lei a interrogarsi sul destino di ciascuno.

Perché la vera questione messa a tema è proprio questa: non sarà che trascinati dal rotolare insensato dei nostri giorni, ci dimentichiamo che il compito principale è “vivere” e non “fare”? Non sarà che tutti presi dai valori dell’efficienza, del successo, dell’arricchimento, ci scordiamo l’assoluta gratuità di ciò che è bello e in quanto bello, vero? Infine, dove sta scritto che la solitudine produce isolamento? E se fosse, esattamente al contrario, che chi è incapace di stare solo difficilmente potrà avere un rapporto fecondo con il prossimo?
Questo ci rammenta la Zarri in pagine animate da una scrittura assieme aspra e carezzevole, che prende avvio dalla descrizione della sua prima casa solitaria, a Molinasso, sulle colline sopra Ivrea, casa che cresce anno dopo anno grazie alle sue attivissime mani. Il giardino si fa sempre più bello e rigoglioso, le tante bestie (gatto, cane, conigli, polli, uccelli) compongono un coro animato e festoso della quotidianità, l’interno della vecchia cascina si popola di oggetti semplici e eleganti. Sì, perché la Zarri non rifugge affatto dalla bellezza. Anzi, le va incontro ardente, come se fosse un regalo del Signore. Per lei è importante preparare con cura la tavola o addobbare le stanze con mazzi di rose antiche, scelte con la competenza di un botanico provetto.

Vivere in povertà non vuol dire essere sciatti, indifferenti al gusto e all’armonia. E la povertà per lei è una scelta. A lungo le mancheranno luce elettrica e riscaldamento, ma affronta il buio e il gelo con tenacia, ripagata da un contatto costante e totale con gli umori della terra, con il succedersi delle stagioni.
Perché la sua fede ha un bisogno spasmodico di impastarsi con quella realtà porosa e scabra capace di rovesciarsi in magnificenza del creato.
Il Dio della Zarri non è un Dio punitivo, ma luminoso, lieto. Che invita a scoprire lo straordinario nell’ordinario, il miracolo nella ferialità dell’esistenza.

L’eremita, ci rammenta chi, da laica, ha fatto professione monastica, non è un misantropo. E neppure una creatura eccezionale. Semmai è un individuo che ha riscoperto quella piena “normalità” di cui la maggior parte di noi sembra invece essersi scordata.

«Casalinga, scrittrice, contadina », così la Zarri si autodefinisce. E intanto prega: a modo suo, naturalmente. Perché se con regolarità trascorre alcune ore in orazione in un umidissimo spazio riattato a cappella, nondimeno si accorge che a volte avverte più profondamente “il senso del divino” sgranando fagioli o sarchiando l’orto. Ed è qui, di nuovo, che l’agnostico se la sente prossima, vicina; quasi avvertendo echi del “Deus sive natura” spinoziano.

In fondo, questa teologa eremita parla a tutti noi: cittatradini e campagnoli, credenti e non credenti. Ci invita a riaprire gli occhi su una realtà vibrante, troppo spesso seppellita sotto il velo dell’abitudine, dell’estraneità, della noia. Su una libertà interiore che va salvaguardata ad ogni costo. Sulla semplicità come meta finale dell’esistenza: superamento di una complessità che va sì attraversata, conosciuta e patita, ma da ultimo, per l’appunto, lasciata alle spalle.

Franco Marcoaldi (la Repubblica, 12/02/2011)

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