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UN APOCRIFO DA MEDITARE

Se un cattolico vagamente osservante supera l’impatto della copertina con lo sguardo inquietante dell’autrice – la francese Amélie Nothomb, che dal 1992 pubblica un romanzo all’anno collezionando premi tra cui il Grand Prix del l’Académie Française per libri spesso pregevoli per inventiva e stile, sostanzialmente profani – troverà sorprendente l’ultimo uscito quest’anno e subito recensito dal Sole24ore, ma anche, con il dovuto distacco, dal Regno. Il titolo – Sete – non lascia immaginare il contenuto della narrazione. La “sete” è quella di un Gesù inedito che, dopo il processo non sale al Golgota, ma trascorre una notte in carcere dove evoca le vicende ultime della sua vita, visioni non certo conformi alla linea della Congregazione per la Dottrina della Fede, soprattutto per il ricordo di Maddalena, la donna il cui amore vive dentro la lettura di un’incarnazione non del tutto eretica. Infatti Amélie Nothomb – non so se sia cattolica o sia stata accurata nella ricerca personalizzata ma coerente con la Scrittura – ha letto e interpretato in modo suggestivo quanto accadde a Gesù dopo la condanna. Il protagonista rievoca all’inizio: “Pensavo che il mio processo sarebbe stato una farsa”, ma non prevedeva che in quel processo sarebbero successe cose assolutamente impreviste, ferite che fanno male, dopo il tradimento di quel ragazzo carico di problemi che, mentre “Tommaso credeva solo a ciò che vede, Giuda non credeva neppure a quello” e “ogni tanto dava di matto”. Era venuto a sapere che si era impiccato, forse, immagina, ad un fico, se è vero che il ramo si spezzò. La notte trascorsa in carcere non è testimoniata, ma l’autrice (e non solo) ritiene impossibile passare dalla cattura al processo e alla condanna in una giornata sola e in quelle ore a Gesù passarono per la mente tra le esperienze passate, anche il suo “unico miracolo di distruzione…La notte prima di morire mi accorgo che non mi vergogno di nulla, salvo che del fico. Me la sono presa con un innocente” per rabbia: aveva fame, e non potè mangiarne i frutti perché non era stagione. Adesso è troppo tardi per poter andare “a raccogliermi sotto quell’albero, abbracciarlo…basterebbe che mi perdonasse e la maledizione svanirebbe all’istante”. Ma l’invenzione più interessante è il dolore che esce dal ripensare alle testimonianze al processo: c’erano andati tutti i trentasette miracolati: lo sposo di Cana, il funzionario del re che aveva il figlio malato, il vecchio cieco, il lebbroso…. tutti testimoni d’accusa, che lo hanno guardato negli occhi nello smentire i suoi doni, perfino Lazzaro che raccontò “come gli sia odioso vivere con questa insopportabile puzza di cadavere che ti si incolla alla pelle”. Un apocrifo da meditare, direi.

Giancarla Codrignani

Amélie Nothomb, Sete, Voland, Roma 2020, p. 128

 

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