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Sandro Botticelli, Divina Commedia, par. 6 (disegno, 1485/90) [Bibliotheca Augustana]

MORTE, GIUDIZIO, PARADISO/INFERNO
OCCORRE UNA NUOVA NARRAZIONE

Roberto Boggiani

 Allargare la comunità cristiana al mondo mai più per proselitismo, bensì per attrazione. Così papa Benedetto all’Episcopato Latinoamericano nel 2007, ripreso e sviluppato da papa Francesco nella Evangellii gaudium.

Per rendere attrattiva la pratica religiosa cattolica, ovverosia l’accoglienza della Parola, la celebrazione dei Sacramenti, la testimonianza della Carità, l’entusiasmo della Speranza, nel XXI secolo si sta ponendo come indispensabile una nuova narrazione dei novissimi.

Una visione inadeguata del cielo
A partire dalla lettura delle Scritture moltissimi autori nella letteratura e nell’arte figurativa hanno proposto una narrazione adatta ai loro tempi. Il mondo attuale, disincantato e scettico, ha bisogno di una narrazione nuova e viva, che sappia stupire e faccia ripensare, abbandonando stereotipi obsoleti, già a partire dalla figurazione del cielo.

Giunti all’era della cosiddetta conquista dello spazio cosmico, che perdura da oltre sessant’anni, il cielo è divenuto inadeguato per evocare Dio e il suo regno. Senonché, già quando nella preghiera che Gesù ci ha insegnato il Padre nostro, invochiamo l’avvento del regno di Dio nella realtà terrena, per l’avvenuta incarnazione del Verbo di Dio, già questo sconfinamento ne spariglia i termini. Il velo del tempio è definitivamente squarciato, la realtà trascendente compenetra l’immanente. Il cielo è troppo lontano e vuoto e freddo per immaginarvi i nostri cari, che fanno parte di noi, sono rimasti dentro di noi, ovvero immaginarvi noi un giorno mancati e staccati dai nostri cari che rimarranno nel mondo.

Come raccontare ciò che nessuno ha visto e provato?
Come poter esprimere oggi in via narrativa il trascendente cristiano?

La filosofia si ferma al ragionamento, coglie tante sfaccettature della realtà, propone sempre ulteriori indefinibili sviluppi, ma non ha mai potuto eliminare il dubbio; la fede va oltre il dubbio e prospetta infiniti sviluppi, specie una fede che propone un Figlio di Dio che viene a condividere la natura umana, a rendere vera la realtà terrena, ad espanderla oltre ogni limite concepibile. Ma come possiamo raccontare quello che nessuno ha visto e provato? Noi lo possiamo (1Gv 1,1-3)!

Non si tratta di intaccare i contenuti dei novissimi, bensì di esprimerli in una nuova maniera, o anche in un nuovo stile, perché la sostanza misterica possa essere ulteriormente compresa, o meglio, esplorata e vissuta. Che possa aprire la via della ricerca di Dio nella vita delle prossime generazioni, nel loro apparato di senso, nell’ambiente che esse respirano quando aprono gli occhi al mondo.

Lanciamoci nell’impresa, non rischiamo di paralizzare l’annuncio del Vangelo, di lasciare atrofizzare le risorse umane esistenti, di immiserire lo scambio culturale con il mondo d’oggi. Posizione inversa a quella che caratterizzò il cristianesimo ai suoi albori e gli permise una rapida ed intensa diffusione e permeazione dell’universo greco-romano.

Di notte in notte e di alba in alba
Ora che la notte avanza e che si va diffondendo la disperata e colpevole convinzione che saremo gli ultimi cristiani, o perlomeno gli ultimi cattolici, refrain che tuttavia perdura dagli albori del Concilio Vaticano II. La nostra cultura della vita (e fede nella vita!) dovrebbe farci sussultare, e operare nella speranza di una nuova alba. Perché di questo si tratta: di procedere di alba in alba, dopo notte e notte, nella beata attesa del giorno senza tramonto.

E che dire poi di questo giorno? Quante volte oggi risuona nel Vangelo e ne scandisce le tappe?! Da che Gesù poi sulla croce confida al buon ladrone “oggi sarai con me nel paradiso” noi sappiamo che oggi è il tempo di Dio. Ed è proprio di questo oggi che una certa narrazione dovrebbe modulare e trasmettere.

Una traccia potrei suggerirla da quanto ho acquisito dalla mia modesta esperienza in terra d’Africa, di cui mi pare di aver colto alcuni tratti di spiritualità primordiale, ma al tempo stesso di validità perenne, in cui il Vangelo può trovare – e là sicuramente ha trovato – un fantastico terreno di inculturazione.

Una traccia africana
L’anziano vede nella sua famiglia, figli, nipoti, nuore e quant’altri, già naturalmente la vita che si dilata oltre l’orizzonte e si estende a tempo indefinito. Questo succede perché l’africano considera centro della vita non se stesso, ma la natura, intesa nel suo significato più inclusivo, in cui ogni soggetto si inserisce facendosi coautore di quell’evoluzione universale che è la sola realtà vivente. In cui si incastona perfettamente l’idea di un Dio protagonista. E gli Antenati (per noi la Storia) vi hanno un ruolo di co-protagonismo.

Paradossalmente questa visione esalta l’individualità, intesa come funzionale alla propria famiglia e all’anima universale. Così ognuno nasce e cresce nella prospettiva e con l’ideale di questa posizione in cui la morte personale si fa evento naturale che non interrompe la vita, proprio in una cultura dove il pensiero della morte è tutt’altro che rimosso. La morte non è una soglia da varcare più o meno lontano nel tempo, ma è una linea sottile a fianco della quale tu cammini fin dai primi vagiti.

Nessuna sequenza fra due vite, terrena e ultraterrena, nessuno sdoppiamento fra terra e cielo, fra corpo e anima. Se noi occidentali continuiamo a insistere su questa distinzione è perché la dimensione razionale è ancora largamente prevalente su quella mistica, ma non più vera. La novità cristiana ha qui la possibilità di spaziare lontano da quella posizione scontata e desueta.

Vita mutatur, non tollitur, una sola vita, la vita in Cristo: “Se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore” (Rm 14,7-8). Se poi vediamo Dio in ognuno che incontriamo, studiamo il suo disegno nella storia e lo percepiamo nel profondo del nostro essere (interior intimo meo), forse la realtà eterna non è così estranea a questa apparentemente contingente. E viceversa.

Valorizzare il mistero
Universo, Natura, Madre terra, Etnia, Famiglia. Ma noi possiamo contare su molto di più: il Corpo mistico di Gesù, il Cristo. Lì tutti i confini vengono meno, tutte le distinzioni annullate. Nel contempo l’individualità è salvata dall’annichilimento. In Gesù risorto e glorioso Dio è tutto in tutti. E anche la natura rientra a pieno titolo nell’opera di salvezza di Dio (cfr. Rm 8, 19-22).

Già dall’iniziazione ai novissimi ci si potrebbe trattenere dalla tradizionale narrazione immaginifica celeste cui troppo spesso si ricorre, magari per tagliare corto, proprio perché si è a corto di strumenti narrativi in risposta alle domande dei bambini e dei ragazzi riguardanti parenti scomparsi, massimamente quando trattasi di lutti che li coinvolgono direttamente.

Facilmente ci si ritira poi su linee elusive e inconsistenti quando il soggetto è cresciuto e comincia a pensare alla sorte propria personale e dei propri cari. Bisogna avanzare su linee narrative che puntino tutto sul mistero. E l’adulto deve mostrarsi coinvolto, non smarrito o imbarazzato, alla vana ricerca di colmare l’incolmabile.

La consolazione dello Spirito
Inoltre è tempo di esaltare la dimensione comunitaria della morte: non va più detto che si muore soli. Non abbiamo l’ambire di assimilare la nostra alla condizione imperscrutabile di Gesù sulla croce. La Chiesa muore ogni giorno, ogni momento, nelle condizioni le più disparate. Proviamo dolore indossando i panni delle vittime di calamità, di tragedie, di malattie, di eccidi, come di chiunque muore, giusto o peccatore che sia. E il dolore della Chiesa si espanderà su di noi quando ci vedrà nelle strette per i nostri cari, o vedrà noi protagonisti.

Questo si chiama Consolazione dello Spirito in noi: la partecipazione comunitaria quotidiana universale in cui ci troviamo immersi, come lo siamo stati nel battesimo. Che si effonde in primo piano sulla famiglia e sulla Comunità locale, in un’occasione forte di preghiera, per sentirsi e farsi sentire fratelli e sorelle in una stessa Storia, che fluisce ma non finisce.

Nella tradizione cristiana il concetto di morte è sempre strettamente connesso al concetto di peccato – seguendo la narrazione biblica – oltre che ai sentimenti di caducità, di termine, di perdita. Da qui l’aspetto penitenziale della liturgia funebre che prevale, almeno nell’immaginario collettivo, sull’aspetto pasquale prorompente dalle letture e dalla liturgia, dove il cero pasquale campeggia. L’impianto dottrinale che lo promuove, lo sostiene, lo inculca nella pratica religiosa è monumentale, assolutamente inscalfibile, e ne fa un prezioso monito per i fedeli viventi, a cui – piuttosto! – si addice la penitenza.

Una provocazione
La morte è la massima provocazione che Dio ha lanciato per smuovere la nostra riluttanza, inerzia, resistenza alle sue proposte d’amore. L’omiletica troppo spesso propende per assecondare l’aspetto luttuoso del rito, a soffermarsi sulle vicende penose che hanno condotto alla morte, ad emettere l’elogio che solitamente spetta al defunto, a solidarizzare con i parenti.

L’aspetto spirituale vaga troppo spesso sullo scontato: propone insistentemente un’altra vita presentata come idilliaca, quale traguardo della nostra fede, quale riscatto dal dolore. Questa prospettiva, che accoglienza può avere nell’animo del giovane, che fisiologicamente si sentirebbe di cavalcare il mondo e di domarlo? Percepire la presenza del Signore nell’angoscia e nel dolore, quando sappiamo che proprio ciò evoca il silenzio di Dio, è il massimo della vita, ma non disgiunto dal sentirlo nella gioia e nell’esultanza, per la sua presenza continuativa di condivisione in toto della nostra esistenza particolare e comunitaria, chiamata Spirito Santo.

Il giovane, in quanto tale, è nelle condizioni più favorevoli per credere che la felicità, la giustizia, l’amore, la pace sono da realizzare qui ed ora. Perciò non disdegna la lotta per vincere lo scoraggiamento, la disillusione, lo sgomento, la disperazione che la morte può portare con sé, specialmente se si tratta dei propri cari o di morte prematura.

Roberto Boggiani
Medico, operatore in una comunità di accoglienza (Parma)

[pubblicato il 6 dicembre 2021]
[L’immagine che correda l’articolo è ripresa dal sito: http://www.ex-art.it/magazine/mostre04.htm]

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Ricominciare dalla preghiera dei fedeli

3 Commenti su “MORTE, GIUDIZIO, PARADISO/INFERNO
OCCORRE UNA NUOVA NARRAZIONE”

  1. Carissimo Roberto, condivido le tue provocazioni e stimoli.
    Purtroppo tutto dipende dalla concezione della morte che la maggior parte del clero continua a coltivare nei “cattolici non cristiani”:
    – la morte come stipendio del peccato, come se non esisteva già prima dell’esistenza dei primi ominidi!
    – il defunto che “è partito per la casa del Padre” e non sai l’indirizzo tra le innumerevoli galassie…
    – però bisogna rifornirlo con preghiere, Messe di suffragio mensili o annuali…(10-20euro) E ,se gli vuoi fare il pieno, ci sono le “Messe gregoriane”!?! (600-700 euro).
    – Alimentando la credenza sul Purgatorio, di cui Gesù non ha mai parlato, altrimenti non avrebbe detto al “buon ladrone/malfattore”: …OGGI sarai con me in Paradiso “ , senza premettere novene, penitenze, esercizi spirituali e…digiuni!
    Per non parlare di quell’ “Eterno riposo” che sembra un luogo di nulla facenti, mentre ancora “il Padre mio opera ed io pure”!
    E perché, se “siamo sempre del Signore” e Lui è rimasto con noi fino alla fine dei tempi”, non diciamo che “per- con – in Cristo i nostri cari restano accanto a noi, nella dimensione della trasfigurazione , visto che “la vita non tolta ma trasformata”?
    Mi dispiace non poter annunziare il Vangelo della gioia di “nostra sorella morte corporale”, (Kerigma) dato che da 21 anni sono presbitero uxorato e, perciò, emarginato!
    Pietro Taffari, presbiteri ex ministrante

  2. I tempi sono pronti per un nuovo rilancio spirituale di cui moltissimi cristiani sentono il bisogno. Bisogno di trascendenza al di là del materialismo scientista di questi decenni senza Dio. Ma la prima che deve convertirsi senza paura di osare è proprio la chiesa molto ripiegata su se stessa e quasi rassegnata alla fine del cristianesimo. È necessario un rinnovamento profondo e coraggioso

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