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PER UN’ECONOMIA DEMOCRATICA

Raniero La Valle

“Viandanti” mi chiede di spiegare ai suoi amici perché – giuristi, sindacalisti e associazioni diverse – abbiamo recentemente promosso un movimento che si chiama “Economia democratica”. Il nome allude a esperienze analoghe che abbiamo vissuto in Italia quando, nel momento più creativo della vita della Repubblica, sorsero movimenti come “Psichiatria democratica”, “Genitori democratici”, “Insegnanti democratici”, “Magistratura democratica”, che mentre affrontavano problemi che sembravano di settore (la chiusura dei manicomi, l’integrazione dei bambini disabili nelle scuole, il coinvolgimento della società nel processo educativo, l’attuazione dei principi costituzionali nella giurisdizione) in realtà perseguivano beni e valori comuni e hanno cambiato la società tutta intera.

La rinuncia della politica
Anche l’economia sembra che riguardi solo una dimensione specifica della vita associata, tanto che finora la si è lasciata fare agli economisti, ai banchieri, ai tributaristi, ai bocconiani, mentre la politica andava da tutt’altra parte e si occupava di cose tutte sue. Troppo tardi ci siamo accorti che abbandonando l’economia a se stessa, alle sue ideologie e alla sua durezza di cuore, la politica è venuta meno al suo compito di guidare la società, di assicurare e rendere effettivi i diritti e di provvedere alla vita di tutti: almeno alla “nuda vita”, che ormai nemmeno nelle ricche società dell’Occidente lo Stato riesce più a garantire. A sua volta l’economia capitalistica pretendendo di sottrarsi al vaglio della politica, di farsi legge a se stessa, di presentarsi come l’unica civiltà possibile, l’unico ordine conforme a natura e perciò insindacabile, si è posta come nuovo sovrano assoluto con diritto di vita e di morte sui sudditi. Non importa se gli ordini vengono da Bruxelles, dalla Merkel, dal Fondo monetario, dalle agenzie di rating, dai banchieri centrali, dai mercati; il problema è che ormai la sovranità sta lì, e noi non abbiamo modo di far cadere questi troni: i vecchi troni i popoli trovarono il modo di abbatterli, e nacque la democrazia, ma come si fa a rovesciare questi troni di oggi ancora non l’abbiamo capito.

Il dramma della Grecia
La cosa è grave perché questi nuovi sovrani, sostituendosi alla sovranità dei popoli, hanno prodotto, insieme a una drammatica recessione, un deficit democratico e una sostanziale rottura dell’unità europea. Il sogno di un’Europa unita, democratica e sociale, nella quale l’economia e la moneta dovevano essere strumenti di unificazione e non di divisione, si sta trasformando oggi in un incubo.

Il dramma della Grecia ne fornisce l’esempio da manuale. Al di là dei giudizi spesso perplessi degli economisti sull’efficacia e la ragionevolezza delle misure imposte a quel Paese per contrattarne la sopravvivenza, esse manifestano agli occhi di tutti il trasferimento della sovranità dal livello statuale, dove si esercitava nel quadro di processi democratici, al livello sopranazionale dove la democrazia è assente, e hanno mostrato una certa spietatezza insensibile all’esigenza, e anzi al dovere, di salvare un popolo dall’imminente rovina. Far morire la Grecia per l’Europa sarebbe un matricidio. È la Grecia che ha generato l’Europa, dandole il “nomos” e il “pneuma”, il Logos e il mito, il teatro e l’epica, la politica, l’arte, l’obiezione di Antigone, la traduzione dall’ebraico dell’Antico Testamento, i Vangeli e le lettere di Paolo, la ripresa moderna della filosofia classica, mentre ancora oggi la civiltà neo-greca, come la chiama Mikis Theodorakis, in tutti i campi dà il suo alto contributo alla vita dell’Occidente.

Riportare l’economia a fini sociali
La crisi che stiamo vivendo anche qui da noi, la disoccupazione, il futuro negato alle giovani generazioni, i suicidi che con imprevisto interclassismo esprimono una stessa disperazione di operai ed imprenditori, hanno le loro radici a questo livello di profondità. Il problema è di riportare l’economia sotto la legge, rimetterla nella democrazia, reintegrarla nello Stato di diritto, ricondurla a condividere i fini generali della società, impedire, come dice la Costituzione, che si svolga “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, e fare sì che sia “indirizzata e coordinata a fini sociali”. Ma questo non basta chiederlo alle classi dirigenti: sono gli uomini e le donne della vita quotidiana, i cittadini della Repubblica, che devono prendere in mano questa bandiera.

Facciamo nascere un movimento
Perciò l’idea è quella di un movimento, che però non sia volatile, che assuma se possibile la concretezza di una aggregazione associativa. Per questo si è pensato ad una vera e propria associazione (ci si può iscrivere, utilizzando un facile indirizzo email che è economiademocratica@tiscali.it), allo scopo di assicurare all’iniziativa una certa stabilità anche nel tempo, secondo le modalità enunciate nel documento che si trova sul sito www.economiademocratica.it.

Se la risposta sarà larga e tale da dimostrare che l’esigenza è giusta e il problema è ben posto, si passerà alla fase organizzativa e al lavoro comune, per un’altra economia e un’altra politica, per restituire alla politica il compito di difendere i più deboli nei rapporti economici, secondo una tradizione che va dal codice di Hammurabi al costituzionalismo moderno. D’altronde il vento sta cambiando. Le novità intervenute in Francia con l’elezione di Hollande dimostrano che la politica può riprendere il suo ruolo, e che non sono un destino la povertà, la disoccupazione, la precarietà, la diseguaglianza, la perdita dei diritti e dei valori della vita pubblica.
Ancora una volta, ce la possiamo fare.

Raniero La Valle

3 Commenti su “PER UN’ECONOMIA DEMOCRATICA”

  1. Ho letto sul sito (http://www.economiademocratica.it/) il documento di Economia democratica. E’ un testo che enuncia una serie di intenzioni perfettamente condivisibili, quando parla ad esempio della “rottura del rapporto vitale tra economia e democrazia”, quando si richiama alla Costituzione e quando dice che il problema in questione “non riguarda solo gli economisti”. Tuttavia mi pare che l’analisi alla base del documento presenti una serie di omissioni e di punti alquanto opinabili che meritano di essere discussi. Eccone alcuni.
    1. Il documento lamenta la “sottrazione allo Stato di ogni facoltà e strumento di intervento nella vita economica” e critica il fatto che “l’economia… si è sovraimposta alla società e alla politica”. Giusto, ma quando è accaduto questo? “Oggi” (sembra affermare il documento), magari con le scelte del governo Monti? Il testo è pieno di riferimenti alla politica dell’attuale governo (senza mai citarlo), mentre se la cava con mezza riga a proposito di Berlusconi, e non dice una parola sui governi precedenti, quelli ad esempio prima, durante e dopo l’era Craxi, in cui si è accumulato un debito esorbitante e in cui si sono prese decisioni di welfare – ad esempio le baby pensioni – chiaramente insostenibili. Lamentare che la “Repubblica” non riesca più a “rendere effettivi i diritti” in campo “economico e sociale”, senza neppur citare una delle cause principali di questo venir meno – e cioè gli interessi sul debito che sottraggono una mole enorme di risorse – è contraddittorio. La sovranità non l’abbiamo persa “oggi”, l’abbiamo persa allora. E l’uscita da questa situazione di debito eccessivo – che ci mette in balìa dei mercati internazionali – è una mossa indispensabile (e meritoriamente intrapresa dal governo attuale) proprio per “difendere la parte debole nei rapporti economici” e per porre fine al “sopravvento dell’economia sulla politica” che il documento (giustamente) lamenta.
    2. Il documento condanna “le politiche reaganiane e tatcheriane”: e come non essere d’accordo? Ma l’analisi del quadro internazionale che segue è fuorviante. La politica economica di Obama non è quella di Reagan, e, quanto alla politica europea, non mi pare si possa oggi sostenere ragionevolmente che abbia rinunziato “ad ogni controllo sui movimenti dei capitali” o persegua una “immunità fiscale per le grandi ricchezze”. Un caso che indica una direzione contraria è ad esempio il tentativo di introdurre la Tobin tax, frustrato per ora dall’opposizione di Cameron (e si potrebbe aggiungere la lotta all’evasione fiscale dell’attuale governo italiano). E non si può fare un’analisi attendibile della situazione mondiale omettendo completamente il ruolo dei paesi emergenti, ignorando ad esempio le conseguenze che il basso costo per unità di prodotto in atto presso quelle economie ha sull’impiego della manodopera in occidente.
    3. Il documento accredita una visione ‘in bianco e nero’ della situazione economica mondiale: è vero invece che il quadro internazionale è complesso e richiede molte competenze per essere gestito. Trovo singolare (oltre che ingenerosa verso Monti) l’osservazione del testo di La Valle che “l’economia… la si è lasciata fare agli economisti… ai bocconiani”: che sarebbe come dire che per progettare un ponte possiamo fare a meno degli ingegneri. (Peraltro tra gli stessi economisti ci sono opinioni molto differenti su come uscire dalla crisi). E’ condivisibile l’affermazione del documento che “la lotta per un’economia democratica non riguarda solo gli economisti”, ma il fatto è che per “portare il complesso delle istituzioni… alla coerenza con i principi e i diritti sanciti dalle Costituzioni” non è sufficiente una presa di coscienza da parte di alcuni dei cittadini (come quella lodevolmente auspicata dal documento), c’è anche un problema di risorse da trovare e di soluzioni da elaborare che siano il più possibile condivise, se si vuole che abbiano efficacia: e il documento non mi sembra indichi alcuna via per una soluzione operativa in questo senso.
    Auspico una discussione approfondita su tutti questi temi sul sito de I viandanti.
    Dario Maggi

  2. Il piano economico è altrettanto importante di quello spirituale. Ho aderito, per sostenere questa iniziativa, anche se non sarà per me prioritaria. Cordialità Claudio

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