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LA LAICITA’ FA BENE ALLA CHIESA CATTOLICA

La laicità dello Stato si pone come una realtà problematica per la Chiesa cattolica. Ormai ineludibile, ma comunque problematica, come attestano i tentativi di distinguere, per esempio, una laicità positiva (e perciò accettabile) da una laicità negativa. All’origine della questione sta il fatto che, in Occidente è venuta meno la societas christiana, in cui la religione strutturava esaustivamente l’ambito umano-sociale.

Severino Dianich affronta il problema non da un punto di vista giuridico, come il più delle volte avviene, ma come vero e proprio interrogativo teologico: quale ecclesiologia, cioè quale “forma della Chiesa”, per una comunità cristiana che abita in uno Stato laico? Come a dire che prima ancora di guardare lo Stato e dare un giudizio valutativo sulla sua laicità, la Chiesa cattolica deve innanzi tutto guardare se stessa. Dianich invita a rimeditare l’esperienza della Chiesa degli apostoli, per i quali non era la trasformazione della società che avrebbe fatto avanzare il vangelo, ma la diffusione del vangelo che avrebbe trasformato la società.

Il punto di partenza della riflessione è guardare alla laicità dello Stato non solo come meccanismi della vita sociale, ma come una vera e propria cultura complessiva. La laicità è segno di una società differenziata, dove non ci sono più una cultura, una religione o un centro di potere egemoni. In un contesto del genere, la relazione con l’altro è cruciale. Nota Dianich:

Lumen Gentium 2 ci ha insegnato che la Chiesa non è una rete di relazioni solo al suo interno, ma è un segno e uno strumento per il mondo ed è, quindi, strettamente relativa all’altro da sé. Non avrebbe senso, quindi, voler costruire un’ecclesiologia autoreferenziale. La relazione con l’altro non è un fattore conseguente, bensì un elemento strutturante (17).

In altre parole, diversamente da quanto molti pensano, la situazione attuale non è uno svantaggio per la Chiesa, rispetto all’egemonia del passato. Le consente anzi di esprimere più pienamente la propria realtà e la propria missione. Certo, si tratta di abbandonare un retaggio dalle radici antiche che tuttora resiste. Lo si può vedere come un processo di purificazione il cui punto di arrivo sono dei credenti che comunicano la fede non in forza di un proprio potere, ma solo sulla base della testimonianza di vita.

La dinamica essenziale e primaria della comunicazione della fede è quella di un atto comunicativo fra due persone e la condizione di fondo della sua praticabilità è la libertà degli interlocutori, sia nel dire, sia nell’ascoltare e sia, soprattutto, nel tirarne le conseguenze (37).

La scelta di fede come esercizio di libertà e la laicità, si potrebbe dire, come spazio che garantisce questa libertà. Certo, muoversi in questa prospettiva significa esercitare un attento discernimento sulle relazioni tra i pastori e la politica, soprattutto in relazione ai cosiddetti “valori non negoziabili”, i quali diventano spesso occasione di tensione. I problemi nascono quando si confondono i valori con le norme. I pastori dovrebbero esprimersi sul piano dei valori, ma non creare trincee su quello delle norme.

Se è fuori di dubbio che i principi non sono negoziabili, è anche vero che gli strumenti per la loro messa in pratica, cioè le leggi prodotte da assemblee di rappresentanti di una società ideologicamente frammentata, non possono non esserlo (58).

Ne deriva la necessità di un protagonismo molteplice e differenziato dei laici, in piena libertà di azione e pluralista negli orientamenti politici. Qui Dianich ricorda Gaudium et spes 43 sul primato della coscienza convenientemente formata nel guidare l’azione dei laici. Dai pastori deve venire luce e forza spirituale, dice il documento conciliare, ma non per questo posseggono una competenza universale sui problemi concreti. E’ un equilibrio difficile da raggiungere e su cui il confronto dovrebbe essere maggiore.

Comunque, conclude Dianich, la “forma” della Chiesa nello svolgere la sua missione dentro lo Stato laico, non può discostarsi dalla forma Christi. E’ Gesù il criterio a cui rifarsi.

Non è dalla percezione di un suo potere, né dal riconoscimento di un suo ruolo di autorità che la missione della Chiesa oggi si può giovare. Essa ha bisogno, al contrario, di presentarsi al mondo con un volto diverso, che riproduca quello del suo messia. (…)

La forma in cui egli ha tradotto il suo divino potere è stata quella del rifiuto della competizione con i poteri del mondo e, nel conflitto suscitato dalla sua predicazione, si è presentato inerme di fronte ai poteri mondani, Questa forma Christi determina nella Chiesa, sul piano personale, il costante impegno della conversione dei fedeli e, sul piano istituzionale, la necessaria continua ri-forma delle sue istituzioni (89-90).

Christian Albini

 

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