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COME RIPULIRE LE NOSTRE LITURGIE
DALLE VESTIGIA DEL PASSATO?

Paolo Cugini

Il cambiamento culturale epocale in atto, provoca la comunità cristiana. Sono ormai decenni che si percepisce questo cambiamento che sta intaccando tutti gli aspetti del mondo Occidentale. Non a caso si parla di cultura non solo post-moderna, ma anche post-secolare, post-cristiana, come per segnalare che il cambiamento in atto coinvolge anche la comunità cristiana.

Non solo evangelizzazione
Dinanzi ai cambiamenti, spesso ci troviamo impreparati anche perché, come ci ricordava il pensatore francese Charles Péguy, l’anima tende alla tranquillità, a sdraiarsi sui pensieri bell’e fatti. Non si tratta di pensare solo a nuovi cammini dell’evangelizzazione o di rievangelizzazione, ma anche e, forse, soprattutto, di pensare a modalità nuove della celebrazione liturgica. Non possiamo pensare di riproporre lo stile liturgico consueto oppure, come accade purtroppo in momenti di cambiamento, a rovistare nei bauli dei ricordi per rimettere in auge liturgie desuete, veri e propri pezzi da museo, che non dicono nulla nel nuovo contesto culturale, se non un po’ di sentimentalismo religioso per i nostalgici di turno.

Si tratta di ripensare la liturgia, il suo modo di comunicare con il popolo di Dio i misteri che sono al centro della fede, in modo da fornire un linguaggio intellegibile alle persone che si accostano ai sacramenti della Chiesa e ai sui misteri. In modo particolare, diventa necessario pensare alle eucarestie domenicali, per farle divenire momenti significativi per le persone che vi partecipano, spazi accoglienti e ponti verso il Mistero.

Uno svuotamento di senso
La convinzione è che non si tratta d’inventare nulla di particolare, ma di riprendere in mano l’esistente, le fonti della nostra fede, che sono la Parola di Dio e la Tradizione della Chiesa, come ci ha insegnato il Concilio Vaticano II (Dei Verbum, 12).

Il tema della liturgia è importante perché riflette il modo d’intendere Dio. Dal modo in cui una comunità celebra l’eucarestia, si capisce in che Dio crede. L’insistenza sul precetto ha provocato lo svuotamento della dimensione relazionale e comunitaria, che è alla base del significato della liturgia eucaristica, intesa come azione del popolo. La predicazione che per secoli ha insistito sull’obbligo del precetto domenicale se, da una parte, ha provocato la diffusione del costume della messa domenicale come abitudine necessaria per la salvezza, dall’altra l’ha consegnata definitivamente nelle mani della classe sacerdotale togliendola, in questo modo, al popolo di Dio. C’è stato, dunque, un processo di snaturamento rispetto al significato originale che Gesù ha voluto dare all’eucarestia, come segno della sua presenza in mezzo ai fratelli e alle sorelle e come momento di consegna alla comunità del suo messaggio centrale.

L’indifferenza ai precetti
Il nuovo contesto culturale nel quale siamo immersi, se da un lato appare insensibile agli aspetti religiosi a causa della sua marcata portata materialista, dall’altra permette di recuperare alcuni aspetti andati perduti nel tempo. Lo svuotamento della lettura metafisica e ontologica della realtà, venuto a compimento nell’epoca post-moderna, ha aperto la strada alla pluralità delle narrazioni possibili degli eventi. Si passa, in questo modo, da un approccio costrittivo della religione, con precetti, obblighi e doveri, che circoscrivono il modo di appartenenza al sacro, ad un tipo di approccio libero, basato più sulla comprensione soggettiva, che dalla coercizione, più sull’ermeneutica che sulla metafisica.

Oggi le giovani generazioni sono totalmente indifferenti agli obblighi e alle minacce nei confronti dei precetti religiosi. Passare da uno stile coercitivo verso una proposta che stimoli l’interesse libero delle persone alla proposta religiosa, esige un cambiamento di paradigma radicale, che richiede la disponibilità a non identificare la bontà della proposta con la quantità numerica di chi partecipa. Il controllo coercitivo del popolo da parte della casta sacerdotale, sorretto dal clima politico e sociale che permetteva tale stile, provocava immediatamente la presenza massiccia dei fedeli ai momenti religiosi.

Una classe sacerdotale per gestire il sacro
Ad un certo punto del cammino, la chiesa più che essere attenta a proporre lo stile del fondatore, si è lasciata prendere la mano dalla possibilità reale di controllare le masse che, al contempo, significava la possibilità di contare nel dibattitto politico e sociale. Chi controlla le masse controlla il potere. Certi accorgimenti dottrinali, come la confessione obbligatoria prima dell’eucarestia, hanno esacerbato il controllo della classe sacerdotale sui fedeli, più che proporre un cammino di libertà come proponeva il Maestro. Lo stesso si può dire sull’imposizione del celibato sacerdotale per i candidati al sacerdozio, che ha stigmatizzato un processo di diversificazione del clero nei confronti del popolo e, in modo particolare, delle donne.

La giurisprudenza canonica, la teologia e la spiritualità che si sviluppa a partire dal X secolo d.C., sono tutte alleate per sostenere lo stesso discorso della necessità di una classe sacerdotale per gestire il sacro. La liturgia è lo spazio più idoneo in cui si manifesta questo fenomeno più politico che religioso. L’architettura degli spazi religiosi è il documento storico più visibile di questo processo di decostruzione politica del messaggio evangelico, a favore di un’istituzione che, ad un certo punto, decide di andare per la propria strada dimenticando l’origine del percorso.

La separazione spaziale
Negli edifici adibiti alle manifestazioni liturgiche lo spazio in cui la classe sacerdotale gestisce il sacro subisce una doppia operazione architettonica. C’è, infatti, un processo di separazione dello spazio addetto al sacerdote, che compie le sue funzioni dal resto del popolo. Questa separazione è evidenziata da strutture specifiche – le balaustre – che segnalano sin dove il popolo può giungere. In secondo luogo, si assiste ad un progressivo innalzamento della zona chiamata presbiterio, con l’obiettivo di rendere visibile lo spazio sacro.

Gli storici della liturgia ci avvertono che queste modifiche avvengono nel periodo in cui, a causa delle invasioni barbariche che devastano l’Impero Romano, si perdono i dati biblici e patristici e la liturgia subisce la nuova impostazione di tipo materialista del mondo religioso. Non si cerca più la dimensione così detta ontologica degli eventi che hanno accompagnato la vita di Gesù, per riproporli nella liturgia, ma si cerca di riprodurre il più fedelmente possibile, ciò che materialmente è avvenuto. L’innalzamento del presbiterio, dovrebbe, in questa prospettiva, significare il monte degli ulivi in cui Gesù ha vissuto la passione.

Il peso della sedimentazione culturale
Contemporaneamente a questo fenomeno, ce n’è un altro che lo accompagna. Si tratta della progressiva identificazione della chiesa con l’impero romano, divenuto Sacro Romano Impero. Un segno chiarissimo nel campo liturgico di questa identificazione, sono le vesti liturgiche, che più che essere il segno della presenza della povertà del maestro, sono il simbolo della potenza politica dell’impero romano. Del resto, nei secoli di dominio temporale della chiesa, non mancheranno liturgie in cui viene manifestato il potere della chiesa su principi, re e imperatori. Queste deformazioni del messaggio originale confluite nella liturgia, permettono di comprendere non solo la necessità di una riforma liturgica avvenuta nel Concilio Vaticano II ma, soprattutto, la difficoltà di attuarla a causa dei nostalgici di turno, che non riescono a liberarsi la mente dalle forme del passato. Del resto, come diceva Thomas Khun, le strutture culturali si sedimentano a tal punto che anche una rivoluzione culturale non è capace di provocare cambiamenti immediati. Sessant’anni di storia non sono quasi nulla rispetto ai quindici secoli dell’impostazione precedente.

Difficile scalfire la paura del cambiamento
I poveri, gli esclusi dalla società, gli emarginati, le persone che in qualche modo vengono discriminate, dovrebbero trovare accoglienza nella comunità cristiana. Lo spazio liturgico, le celebrazioni dei sacramenti e, in modo particolare, la celebrazione eucaristica domenicale, espressione della vita della comunità dovrebbe essere realizzata in modo tale da rendere evidente lo stile accogliente e aperto a tutte e a tutti.

L’accoglienza dovrebbe essere un aspetto normale nella vita dei cristiani, dei seguaci di Gesù e, invece, tante volte non è così. Da una parte c’è una stratificazione d’ignoranza mista a pregiudizi difficile da scalfire, riscontrabile non solamente in alcune persone che frequentano la comunità, ma nella società in generale. Dall’altra, ed è l’aspetto più complesso, c’è la pesantezza di un’impostazione liturgica legata alla forma, al rito, che si traducono spesso in formalismo e ritualismo.

Non è facile preparare liturgie vive e accoglienti in contesti comunitari dominati dalla paura del cambiamento e dall’identificazione della verità con l’immobilità. È nella liturgia che si nota più che in altri ambiti religiosi, la tendenza a riempire il presente con le vestigia del passato, quando non c’è la disponibilità di pensare ad elaborare qualcosa di nuovo, attento ai cambiamenti in atto e, soprattutto alle persone che vivono la novità della quotidianità.

È imbarazzante constatare che tra i presbiteri, che sono coloro ai quali è affidata la guida della comunità e della liturgia, le nuove generazioni spesso le troviamo più rigide e ancorate al passato della vecchia guardia che, in qualche modo, ha cerato di attualizzarsi. La rigidità di vedute e posizioni è difficile da guarire.

A volte solo il tempo riesce a scalfire il granito di visioni monolitiche e unidirezionali, spesso e volentieri superficiali e poco approfondite.

Paolo Cugini
Parroco di quattro parrocchie nella campagna bolognese

[pubblicato il 17 giugno 2022]
[L’immagine che correda l’articolo è ripresa dal sito: www.vaticannews.va]

 

Articoli sulla liturgia presenti nel sito:
Andrea Grillo, Liturgia. Verso un Jurassic park del rito?
Giancarlo Martini, Una comunità celebrante prende la parola
Giancarlo Martini, Per una comunità celebrante
Roberto Boggiani, Ricominciare dalla preghiera dei fedeli 
Andrea Grillo, La riforma liturgica alla prova dell’inculturazione

5 Commenti su “COME RIPULIRE LE NOSTRE LITURGIE
DALLE VESTIGIA DEL PASSATO?”

  1. Condivido del tutto l’analisi, in particolare nel legare la liturgia e anche la struttura architettonica delle nostre chiese all’immagine di Chiesa e di rapporto con la società e con il potere che esprime. Una immagine che ha una lunga tradizione, risalente almeno all’epoca della riforma gregoriana confermata e rafforzata nel Concilio di Trento, ma che non esprime più un sentire comune e rischia di essere sempre più lontana e incomprensibile ai più. Un aiuto viene da papa Francesco, ma sarebbe necessario che tutta la Chiesa si impegnasse in un profondo mutamento e conversione…Grazie

  2. Grazie Paolo
    Condivido pienamente la tua analisi. Da molto tempo nelle celebrazioni provo una pesantezza che porta la mia mente e il mio spirito a vagare in altri siti. Nella messa domenicale tre letture più il salmo, lette una dopo l’altra, mi impomano e penso spesso che avrei bisogno di gustare anche solo poche frasi, di assaporarle nel silenzio, di farle scendere nel cuore. Grazie a Dio mi riprendo nell’eucarestia. Il pane spazzato e il sangue di Cristo mi riconnettono in corpo, mente e spirito e colgo la presenza del Divino.
    Grazie ancora per questa acqua viva che ci offri

  3. Grazie don Paolo,
    hai scritto ciò che è vero e come mi diceva un amico tempo fa, davvero quando non si vede il futuro si guarda indietro, come fanno i tanti cattolici intransigenti con sé e con gli altri.
    Troppo.
    Una domanda: come e cosa definiresti sacro?
    Visto che la parola è accennata…
    E non credo che questa vada eliminata, ma compresa nel suo significato più pieno.
    Grazie mille

  4. Ciao don Paolo
    Riflessioni e spunti interessanti e stimolanti quelli sulla liturgia. Dalla mia piccola e parziale esperienza mi pare che molto sia certamente legato alla concezione di cammino di fede e comunità di Gesù che intorno a lui cammina per la crescita individuale e di comunità. Mi pare che, dall’interprestazione di questo e come sottolinei dalla gestione della liturgia, nonché dal parroco-centrismo nelle comunità, l’esito sia nella gran parte dei casi, di comunità svuotare e oggi purtroppo in forte crisi. Sempre di più appaiono come piccoli feudi, monarchie dove il parroco per tanti ragionevoli motivi si costruisce per sopravvivere la sua corte spesso composta da persone poco competenti, guidate da personalismo con nessun effettivo interesse a crescere come comunità ma piuttosto a gestirla a proprio modo. Ne risulta un’assenza totale di dialogo, di condivisione nelle differenze, di costruzione insieme e, allo stesso tempo, di inutili spaccature nelle relazioni e nella vita comunitaria. Ne consegue poi che le persone più competenti e disinteressate, più capaci di una visione orientata a costruire una comunità che vive intorno al suo maestro Gesù, si allontanano, o vengono allontanate o restano ai margini. Insomma ci chiamiamo comunità ma non lo sia nei fatti e forse non lo siamo mai state consapevolmente; non tutto sarebbe in mano al parroco. Si parla di cambiamento ma spesso è interpretato formalmente non nella sostanza e intorno a contenuti di fede e pastorale condivise, peggiorando la situazione e, credo inconsapevolmente, disgregando le comunità invece che ricostruirle partendo dai nuovi contesti e dal possibile non dalle proprie ideali aspettative.
    Ciao. Luigi

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