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TUROLDO
un Lazzaro dell’Amore

 

Uomo del ‘900 per l’inquietudine del suo pensiero che ad ogni tappa della vita non cessa di tenerlo in tensione, David Maria Turoldo è sicuramente una figura da riscoprire, da studiare, semplicemente da leggere. Quest’anno ricorre il trentennale dalla sua morte e il libro Turoldo. Un Lazzaro dell’amore, scritto da Paolo Bertezzolo e pubblicato nel mese di febbraio dalla Casa Editrice Mazziana, aiuta in questi intenti.

L’autore si propone di far scoprire Turoldo al lettore attraverso i suoi canti e i suoi saggi, secondo l’indicazione stessa che il frate lasciò in La mia vita per gli amici a chi volesse dare una definizione di lui, e ne dipana un filo conduttore che mi pare essere quello della poesia stessa, compagna di viaggio di Turoldo, mezzo per interpretare il mondo e dialogare con esso, consolazione e salvezza nei momenti dell’esilio e della notte della fede, strumento per interrogarsi e dire l’indicibile. È infatti nella poesia che Turoldo esprime le sue domande, le sue amorose inquietudini su Dio e sull’uomo; è nei suoi canti che si può percepire la gratitudine per la vita e il suo gioire e patire con l’umanità intera.

Bertezzolo riconosce che per padre Turoldo la poesia è la dimensione cui si ricondurranno tutte le altre che egli frequenterà nel corso della vita. Grazie al suo potere evocativo, infatti, la poesia gli permette una conoscenza che va oltre il razionale e la speculazione filosofica in cui si era cimentato soprattutto negli anni giovanili, e gli concede di entrare in contatto con la concretezza delle cose e, grazie ad esse, con Colui che attraverso il mondo creato si presenta all’uomo, esibendo una rivelazione di Sé. Tale è questa potenza della poesia da mettere a disagio, perché fa entrare in contatto con la Sapienza insita nelle cose. E di cose, di concretezza, è fatta la poesia di Turoldo. Concretezza come quella del linguaggio biblico, cioè quello entro cui si muove la poetica del frate. Il suo linguaggio è realistico, legato alla terra, che tanta parte ha avuto nella sua infanzia contadina, e alle vicende della storia, anche quando esprime le sue utopie di pace per cieli nuovi e terra nuova. Padre Turoldo però sa giocare anche con leggerezza nel considerare la propria poesia e la propria vocazione di poeta e Bertezzolo, per esprimere questo, gli mette in bocca un’ipotetica esclamazione: “ma in fondo io volevo solo cantare!”. Come il Davide biblico o San Francesco: un giullare di Dio!

Nel libro, le citazioni degli scritti sono abbondanti e permettono, anche a chi non conoscesse approfonditamente la figura del frate servita, di gustare un assaggio della sua poetica e, attraverso di essa, di cogliere la statura di una figura poliedrica e complessa che ha segnato il panorama della Chiesa e della società italiana anche in anni complessi come quelli dal dopo guerra al dopo Concilio.

I suoi versi ci fanno conoscere come visse la sua opzione fondamentale per i poveri con il suo impegno a Nomadelfia o la vicinanza nella lotta dell’America latina contro la dittatura, il suo impegno civile per la pace, i suoi esili dalla sua comunità e dall’Italia, le sue amicizie con grandi figure scomode quali Milani o Balducci, le sue inquietudini interiori che osano farsi scontro e abbraccio con quel Dio che è il suo “dramma”, il suo saper rimanere, malgrado tutto, fiducioso entro l’alveo in cui la Chiesa gli domanda di rimanere. Bertezzolo, sempre attraverso gli scritti, evidenzia anche come egli non abbia lasciato farsi strumentalizzare da coloro che a tutti i costi volevano mettergli un’etichetta di parte.

L’intento del libro di raccontare padre Turoldo attraverso i suoi canti e i suoi saggi, tuttavia, rischia in certi punti di creare come un patchwork in cui il lettore deve soprattutto fare lo sforzo di seguire la via di pensiero per la quale, mediante i versi del poeta, l’autore vuole condurlo, piuttosto che ascoltare semplicemente la bellezza che quei canti e quei saggi medesimi vogliono far risuonare.

L’autore, dopo aver così approfonditamente scandagliato ciò che muove l’animo del poeta, i momenti salienti della sua vita e i variegati aspetti della sua personalità, fa scaturire nel lettore, che ne ha conosciuto meglio la vita e il pensiero, il desiderio di andare direttamente alla fonte gustando goccia a goccia i canti di padre David facendoli propri e, magari, cantandoli con lui. Dopo le densissime analisi dell’autore, la poesia chiede rarefazione. Mi sembra quasi che questo testo rappresenti come una sorta di lectio studiosa che può introdurre all’oratio della ripetizione dei canti poetici di padre David, sperando in una comtemplatio di Colui a cui i canti, come nuovi Salmi, gridano.

Nel libro vengono scanditi i momenti fondamentali della vita di padre Turoldo, che non avrebbe senso ripercorrere qui nuovamente. Alcuni però, anche perché tratteggiati con le parole stesse dell’autore, prendono rilievo, risultano di agevole lettura e si imprimono nell’immaginario del lettore. Ne voglio citare uno, che sembra un piccolo episodio e invece ha indicato una via d’azione e, ancora una volta, ci dice chi sia padre Turoldo.

“Spaventapasseri”, questo era il soprannome che da bambino gli veniva affibbiato, perché era rossiccio, alto e allampanato, vestito di abiti mille volte rattoppati e sempre un po’ corti per la sua statura. Giuseppe – questo era il suo nome di battesimo – temeva lo spaventapasseri al punto di non nominarlo neppure chiamandolo “sp”; era come se gli rubasse la propria identità di bambino, la propria anima, soprattutto quando anche il padre, come in un rinnovato sacrificio di Isacco, lo chiamò così; e di nuovo “spaventapasseri” fu apostrofato da una famiglia a cui aveva chiesto del pane. Il dolore di sentirsi definito con questo nome fu straziante, ma scatenò in lui una “rivolta”, una presa di coscienza della propria vera identità e la risoluzione di “sfamare i ragazzi poveri”. Tre dimensioni fondamentali per la sua vita: essere perennemente in rivolta per un vivere libero dall’oppressione, il suo rinascere come persona dopo un “sacrificio” e la sua decisione di stare sempre dalla parte dei poveri.

Nell’ultimo capitolo, dopo aver sondato in profondità e in estensione gli scritti di padre Turoldo, l’autore riassume il percorso attraverso cui ha accompagnato il lettore, riepilogando alcune definizioni che si possono dare quando ci si chiede chi sia David Maria Turoldo: “uno che crede con una fede senza scampo”; “un poeta”; “un filosofo”; “un teologo”; “un mistico”; “un resistente”; “un educatore”; “un personaggio in prestito, quasi uno straniero”; “un nuovo Lazzaro dell’Amore”. L’autore sceglie quest’ultima definizione, con cui il poeta ha definito se stesso, da apporre come sottotitolo del libro, sentendola particolarmente emblematica e significativa. Sceglie però di non citare l’aggettivo “nuovo” che invece mi sembra importante perché evoca sia il suo saper agire nella novità dei tempi continuamente dettata dalla storia, sia la novità del farsi mendicante anche in modo nuovo, attraverso un percorso filosofico e spirituale di ricerca e di un continuo e inquieto domandare.

Come Lazzaro, che sedeva alla porta del ricco epulone bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla sua mensa, Padre Turoldo volle sempre rimanere nell’atteggiamento del mendicante che sta dalla parte dei poveri e, disturbando le coscienze, sa insistere nel chiedere. Un mendicante che sa stare lì, nel posto che sente suo ma desidera un altrove. Un mendicante che non chiede solo briciole di pane, ma chiede in elemosina quell’Amore che ha costituito il “dramma” della sua vita. Un mendicante di Dio.

Anna Braghiroli

Paolo Bertezzolo, Turoldo. Un Lazzaro dell’amore, Mazziana, Verona 2022, pp. 392

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