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ABORTO: UN CONFRONTO
TRA FRANCIA E ITALIA

Paolo Benciolini

Il 14 marzo scorso il Parlamento francese ha inserito nella Costituzione della Francia il diritto della donna ad abortire. È una scelta da invidiare? Come ogni altro tema che attiene alla vita ed esperienza in ambito sanitario, anche quello dell’aborto – nel nostro caso, più esattamente, della interruzione volontaria della gravidanza (IVG) – ci chiede di porci “dalla parte del paziente”, di quel particolare “paziente” che è una donna incinta che si interroga se interrompere la propria gravidanza. E ci suggerisce di chiederci quale relazione si viene a instaurare con il medico al quale essa si rivolge. Ma di fronte alla recentissima scelta del legislatore francese, appare certamente interessante richiamare anche i motivi di tale decisione e verificare se quel parlamento abbia introdotto criteri profondamente innovativi e comportato importanti e differenti conseguenze pratiche nel confronto con la normativa italiana.

La scelta del legislatore italiano
Ricordo che la legge italiana (n.194) risale al 1978 e si intitola “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”. Il tema dell’aborto si colloca all’interno di previsioni che riguardano, dunque, anche la tutela della donna in gravidanza e la prevenzione delle gravidanze indesiderate.

La scelta del legislatore italiano si era allora basata su una sentenza della Corte Costituzionale italiana del 1975 che, richiamando l’art. 32 della nostra Costituzione, aveva individuato nella tutela della salute della donna la causa di giustificazione che rende non punibile la decisione della donna di interrompere la gravidanza. In particolare, nei primi novanta giorni di gravidanza è la donna che decide se le previsioni legate alla gravidanza stessa assumano rilievo per la sua salute (fisica o psichica).

La scelta del legislatore francese è stata invece diversa: si è basata sulla “libertà garantita” a ogni persona, quindi anche alla donna che decidesse di interrompere la gravidanza.

Per non lasciare sola la donna
Una differenza sostanziale? Certamente sì nella diversità delle cause di giustificazione, non però nelle conseguenze, perché – come si è detto – anche in Italia, in ultima analisi, nel primo periodo della gravidanza la decisione della donna è affidata solo a se stessa.

Ma, guardando con più attenzione al confronto tra le due diverse normative, possiamo accontentarci di questa constatazione? Non esiste davvero alcuna differenza? La risposta a questo interrogativo va trovata analizzando una importante (e felice) impostazione che il legislatore italiano ha scelto di dare alla normativa sulla IVG e che riguarda proprio la previsione di una relazione tra la donna e alcuni interlocutori ai quali è richiesto che essa si rivolga nei primi novanta giorni: in alternativa, il medico di sua fiducia (non necessariamente il “medico di base” perché il requisito della relazione di fiducia riguarda, appunto, le sue esigenze di un confronto fiducioso, di attenzione e rispetto, sul tema della IVG) o un consultorio familiare.

Quali sono le finalità di questo “incontro”? Richiamando dalla legge (art.5), quanto previsto per il consultorio ma che si ritrova, in sintesi, per il medico di sua fiducia, «esaminare le possibili soluzioni dei problemi proposti, aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto». In altri termini (art.2): «contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna alla interruzione della gravidanza». Per la legge italiana, dunque, la donna non rimane sola in un momento e dinnanzi ad una scelta comunque drammatici. Sta qui la differenza?

Una vicinanza attenuata
La procedura francese, in realtà, prevede anch’essa un “ruolo” dei professionisti della salute, che viene esplicitato nell’«informer et orienter sur l’IVG (details, methodes…)», anche sulla base di una «guide pour rèpondre aux questions posèes sur l’IVG», che va consegnata nella prima «consultation d’information».

A mio avviso, peraltro, queste disposizioni sembrano più orientate alla “informazione” e alle indicazioni di carattere “tecnico”. Non trovo, in altri termini, quelle previsioni che la legge 194 propone all’attenzione degli operatori non solo sanitari ma anche sociali (privilegiando, ove possibile, il consultorio familiare con la sua équipe multidisciplinare) che sono volte ad un vero (e rispettoso) “accompagnamento” della donna.

La scelta del Parlamento francese, proclamando il diritto della donna all’IVG, potrebbe portare ora quasi ad accentuare il rischio della sua solitudine e sminuire ulteriormente l’importanza di questa relazione.

Mi viene da pensare che, facendo riferimento ai valori proclamati dalla rivoluzione francese, mentre quella decisione si richiama alla “liberté”, la legge italiana ha privilegiato la “fraternité”, cioè la vicinanza e l’accompagnamento di professionisti preparati.

Questo comporta, naturalmente, non solo la loro competenza tecnica ma anche la capacità di assumere un ruolo non direttivo, di vicinanza e rispetto della donna, di vera e propria “consulenza”.

Integrazione di libertà e accompagnamento
Un ruolo corretto e competente che, già all’indomani della approvazione della legge, la Regione Veneto giustamente ha ritenuto consentito anche a chi avesse sollevato obiezione di coscienza.

Nella Circolare della Giunta n.54/78 (2 agosto 1978) si osservava, in proposito, che «la procedura ordinaria dell’art.5 è espressamente ed esclusivamente diretta non già alla interruzione della gravidanza, ma al suo compimento naturale, a cominciare dal colloquio e fino all’invito a soprassedere e perciò come non sia rilevante ai fini dell’obiezione». Di conseguenza, anche la compilazione del “documento” attestante l’avvenuto “incontro” della donna con il medico (“di sua fiducia” o del consultorio) non fa decadere l’obiezione.

Come da noi evidenziato a suo tempo[1], questo impegno comporta, comunque, e per tutti gli operatori (obiettori o meno), una formazione adeguata e rispettosa delle scelte della donna.

A ben guardare, si tratta di un orientamento (valoriale, non solo metodologico) che consente di integrare tra loro le due impostazioni sopra richiamate e che, a prima vista, potevano apparire tra loro in contrasto: la libertà (liberté) della decisione finale della donna è aiutata da un corretto e competente accompagnamento (fraternité) degli operatori che la legge italiana indica come suoi interlocutori (privilegiati per formazione, non solo formalmente “obbligati”).

A proposito del ruolo delle Associazioni “pro-life”
Proprio rimanendo nella logica di questa ultima osservazione, mi sia consentito un breve commento in ordine alla polemica sviluppatasi (aprile 2024) a seguito dell’emendamento presentato dalla maggioranza governativa in sede di attuazione del Pnrr e relativa alla presenza nei consultori di particolari formazioni associative.

Non si tratta, in realtà, di una novità assoluta perché già la legge 194/78 conteneva la previsione, che (sempre all’art. 2) i consultori possano «avvalersi per i fini previsti dalla legge della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita».

È accaduto che la Commissione Bilancio della Camera abbia introdotto un apposito emendamento all’art.44 del ddl per l’attuazione del Pnrr, così formulato: «Le Regioni possono avvalersi anche del coinvolgimento di soggetti del terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno della maternità». Tale emendamento è stato poi definitivamente approvato in sede parlamentare (con la fiducia al decreto Pnrr).

Un agevole confronto tra la previsione della legge 194 e questa nuova norma consente di rilevare che essa sottrae al Consultorio la scelta di eventuali collaborazioni, prevedendo che sia la Regione a decidere di tale coinvolgimento.

Quale libertà per i consultori del privato sociale?
Nella mia lunga esperienza di lavoro in ambito consultoriale (pubblico e del privato sociale) – esperienza iniziata ancora negli anni ‘60 – la citata previsione della legge 194 è stata periodicamente (seppur raramente) richiamata, specie nei momenti di più accentuata polemica politica da parte dei sostenitori di orientamento “pro-life”, rimanendo peraltro sostanzialmente estranea all’esperienza dei consultori pubblici, che non ne hanno sentito l’esigenza o ne hanno escluso la pertinenza con le loro modalità di lavoro e di attuazione della legge.

Diversa potrebbe apparire la scelta per i consultori familiari non pubblici, per i quali, peraltro, è necessaria una importante distinzione. Per alcuni di essi (intendo riferirmi a consultori “strettamente” privati, non riconosciuti in sede regionale) tale previsione si è di fatto sostanzialmente identificata con le loro scelte istituzionali, traendo la loro stessa ragion d’essere da associazioni che ne avevano promosso l’esistenza.

Diversa è la situazione per altri consultori familiari (non pochi sorti ancora negli anni ‘50 e ‘60) che, con l‘entrata in vigore della legge quadro 405/75 e delle leggi regionali, hanno scelto di assumere un ruolo pubblico nel privato-sociale richiedendo il riconoscimento della Regione di competenza. Per essi l’impegno di dare attuazione alle previsioni della 194 non ha comportato alcuna particolare esigenza di una collaborazione sistematica con «idonee formazioni sociali di base e associazioni di volontariato», potendo invece essere decisa caso per caso, secondo le modalità operative loro proprie e dopo aver assicurato alla donna quella consulenza competente e rispettosa delle sue scelte alla quale si faceva sopra riferimento.

Cosa accadrà, ora, con il passaggio alle Regioni della competenza a decidere se, come e con quali «soggetti del terzo settore» avvalersi del loro coinvolgimento? Quale spazio rimarrà per l’autonomia delle scelte dei consultori, il cui lavoro interdisciplinare, basato sulla valutazione delle complesse situazioni, esige una attenta e rispettosa valutazione di ogni singola situazione?

Quale “libertà” per il consultorio di svolgere il suo ruolo di “fraterno” accompagnamento?

Paolo Benciolini
Professore ordinario i.q. di Medicina legale all’Università di Padova. Già presidente del Comitato etico della Regione Veneto. 

Note – – – –
[*] L’articolo, con il titolo Aborto: un diritto costituzionale? “Liberté” o “Fraternitè”?, è stato pubblicato nel numero 2/2024 della rivista on-lineBioLaw Journal”. Si tratta di una Rivista di BioDiritto frutto della collaborazione fra le Università di Trento, Ferrara, Napoli e Parma, e, segnatamente, per quest’ultima, del Centro Universitario di Bioetica. I titoletti sono della redazione.
Si ringrazia l’autore per la gentile concessione.

[1] P. Benciolini, A. Aprile, L’interruzione volontaria della gravidanza. Compiti, problemi, responsabilità, Padova, 1990.

[Pubblicato il 9.9.2024]
[L’immagine che correda l’articolo è ripresa dal sito: chiaragranato.it]

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