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DA ROSMINI A MONTINI

C’è libro e libro. C’è il libro che leggi per approfondire un argomento e c’è quello che ti permette di conoscere una biografia, c’è il testo erudito e il romanzo rilassante, il saggio di filosofia e il volume che ti accende la luce della mente. Il libro di Fulvio De Giorgi, La scuola italiana di spiritualità. Da Rosmini a Montini (Brescia, Morcelliana, 2020, pagine 736, euro 35), appartiene a quest’ultima categoria. Il testo è una miniera di notizie, ma prima ancora è uno studio approfondito che prende spunto da un’idea centrale: Antonio Rosmini è il cardine della spiritualità del cattolicesimo italiano moderno. La tesi è avvincente: come la storia della spiritualità ha conosciuto una scuola spagnola (Teresa d’Avila, Giovanni della Croce, Ignazio di Loyola…) e una francese (quella oratoriana di Pierre de Bérulle, di Charles de Condren e di Jean-Jacques Olier), anche l’Italia non è da meno. Esiste una scuola italiana di spiritualità che ha il suo capostipite in Rosmini, il maestro letterario in Alessandro Manzoni e la punta di diamante in Giovanni Battista Montini. Il ponderoso volume dimostra la tesi con acribia. L’autore entra nelle ferite sanguinose della Chiesa italiana moderna con la «questione rosminiana» che si è trascinata per decenni (associata alla «questione romana») fino alla beatificazione del roveretano e alla canonizzazione di Paolo VI. Con questi atti ufficiali la Chiesa ha concluso un doloroso cammino di riconoscimento verso una scuola che ha molto da dire alla comunità cristiana attuale.
La scuola italiana di spiritualità, che il libro ricostruisce nelle sue fasi e figure salienti, ha a cuore la purificazione evangelica della Chiesa, coltivando ideali di riforma che vanno ben oltre la logica della controffensiva antiprotestante, tipica della controriforma. Si cambia dall’interno la vita ecclesiale, come avevano fatto nel corso della storia santi e correnti spirituali come san Francesco d’Assisi e il francescanesimo, santa Caterina da Siena, i domenicani e il Savonarola, Carlo Borromeo, san Filippo Neri e la tradizione filippina. Le caratteristiche della scuola sono: il cristocentrismo, la carità al centro della vita cristiana, il primato della Parola di Dio, il valore della liturgia, il dialogo critico con la cultura, il rifiuto di ogni concezione totalitaria dello Stato, il nuovo umanesimo, la formazione come istanza pedagogica della persona nella sua interezza, la centralità della coscienza morale.
La proposta rosminiana non nasce come fungo dal nulla. Vi hanno influito due modulazioni: quella francescano-cappuccina e quella filippina. Il filone francescano, ricco di prestigiosi predicatori apostolici fin dal XVII – XVIII secolo, ha messo l’accento non tanto sull’intelligenza, quanto sul cuore. Ha ispirato un’apologetica conciliativa, non polemica e intransigente, preoccupata di persuadere e accompagnare le coscienze invece di condannarle. Ha inaugurato la celebre distinzione tra errore ed errante, che Giovanni XXIII riprenderà nella Pacem in terris. Il dialogo diventa lo strumento per convincere chi osteggia il cristianesimo, ma ciò non significa rinunciare al radicalismo della fede e all’adesione convinta alla verità cristiana.
La modulazione filippina, dal canto suo, ha approfondito la tradizione spirituale della theologia cordis che è giunta, attraverso san Filippo Neri, fino all’originale riflessione dell’oratoriano inglese John Henry Newman. Essa incentra la sua proposta sulla centralità della Scrittura e sulla bellezza della liturgia, mettendo in secondo piano l’aspetto devozionale della fede. Insiste nella presentazione del volto misericordioso di Dio, attraverso un cristianesimo amabile e cordiale, non terribile e punitivo. L’allegria, la dolcezza del tratto in campo educativo, la profonda umanità e la semplicità sono le naturali conseguenze.
Antonio Rosmini (1797-1855) ha raccolto l’eredità di queste due modulazioni. La sua riflessione è incentrata sul primato della carità, fulcro vitale del cristianesimo. Nelle Costituzioni, il religioso roveretano descrive tre forme di carità. La carità temporale si manifesta nelle opere di misericordia, dando risposta ai bisogni fondamentali dell’uomo. La carità intellettuale, invece, sostiene la formazione culturale: lungi dallo sposare un enciclopedismo dottrinale cattolico, Rosmini è convinto che si può guadagnare le persone al Vangelo «con delicata cortesia e rispettoso parlare» (p. 64). La meta non è una trionfalistica vittoria della Chiesa, ma la sua edificazione: lo studio, l’educazione, la formazione sono ambiti strategici per l’annuncio cristiano. Sono esperienze di amore per l’umanità. Infine, la carità morale e quella spirituale confluiscono nella carità pastorale, che si vive nella cura delle anime.
La riforma della Chiesa è animata da questa consapevolezza: essa è Corpo che cresce e progredisce. Come madre amorevole, la Chiesa è compassionevole con chi sbaglia, sa distinguere tra l’errore da combattere e l’errante da amare. Nell’opera Delle cinque piaghe della Santa Chiesa Rosmini preannuncia i due sensi del rinnovamento ecclesiale fatti propri dal concilio Vaticano II : la riforma come purificazione e come progresso. I mali o le piaghe che affliggono la Chiesa esigono una coraggiosa trasformazione dall’interno. La continua purificazione è opera dell’azione dello Spirito, l’unico in grado di abbellire e rimuovere le rughe dal volto della comunità ecclesiale. È una Chiesa che si va rinnovando giorno dopo giorno, passo dopo passo, consapevole della necessità di convertirsi. Il progresso, invece, vede la riforma come crescita. La Chiesa è un organismo vivente che è in pellegrinaggio verso il Regno. Rosmini aveva intuito «la legge del germe» (p. 146): il seme che germoglia, si sviluppa e giunge a portare frutto. C’è un orizzonte escatologico che, attraverso il vissuto ecclesiale, giunge a maturazione.
L’autore disegna il filo rosso che da Rosmini arriva a Montini. In mezzo la figura gigantesca, forse troppo presto dimenticata, del filippino bresciano padre Giulio Bevilacqua, che ha contribuito alla formazione del futuro Paolo VI tanto da meritarsi la nomina a cardinale negli ultimi mesi di vita. Di Bevilacqua si ricorda la critica verso ogni forma di clericalismo, la potenza risanatrice dell’umorismo nella vita cristiana e la pedagogia della soglia. La carità pastorale, infatti, porta alla discrezione verso i lontani. Non importa fare proseliti, ma occorre abitare la soglia della coscienza, luogo sacro perché possa avvenire una conversione e l’annuncio possa trovare accoglienza.
Il libro dedica molte pagine al religioso bresciano: non trascura il suo antifascismo e il suo essere apostolo della nonviolenza, insieme con l’amico don Primo Mazzolari. Per difendere la libertà dal regime Bevilacqua è costretto ad abbandonare l’Oratorio della Pace di Brescia e trova rifugio a Roma: per alcuni mesi condividerà l’appartamento con monsignor Giovanni Battista Montini. Pagare di persona la fedeltà a Cristo significa per lui appartenere alla Chiesa militante, da non confondere con quella trionfante: infatti, «i cristiani subirono due prove estreme: la prova della persecuzione e la prova del trionfo. La prima fu sempre superata, la seconda no» (pp. 516-517). Il cristianesimo è depositario di valori religiosi, ma custodisce anche una altissima concezione dell’uomo che, per essere tale, deve esercitare la libertà della coscienza.
Ecco il terreno fecondo perché possa maturare la proposta spirituale di Montini. Lo contraddistinguono tre temi di stampo rosminiano: la carità intellettuale, il dialogo e l’umanesimo cristiano. La «civiltà dell’amore» diventa la cifra sintetica del suo messaggio. Già negli scritti di epoca fucina si vede il suo cristocentrismo e l’amore per la Chiesa, vissuta non come vincolo o peso, ma come dono e libertà. Per lui la civiltà cristiana non era solo questione di fedeltà dottrinale, ma di coerenza di vita. Il materialismo pratico era l’avversario della fede, prima ancora delle ideologie del tempo. Ha appreso appieno la lezione dell’umanesimo integrale di Maritain, che verrà sviluppata nel magistero sociale di Populorum progressio (1967).
Anche il dialogo coi lontani è stato al centro della sua riflessione teologica, convinto che «i confini dell’ortodossia non sono quelli della carità pastorale» (p. 612). La Chiesa non adotta posizioni di chiusura, né si serve di minacce o anatemi. La sua legge è la carità apostolica, che avvicina i lontani: convincere è più opportuno che ferire. È controproducente ogni predicazione aggressiva e acida: la pastorale dei lontani diventa un’arte del cuore. In questa linea, il dialogo non rappresenta una strategia comunicativa, ma è parte dell’identità profonda della Chiesa radicata nel Vangelo. Da Papa, Giovanni Battista Montini pubblica l’enciclica Ecclesiam suam: un inno al dialogo dentro e fuori la Chiesa. Il mondo non lo si salva dal di fuori, ma grazie all’incarnazione, come il Verbo di Dio che si è fatto uomo. L’annuncio di Cristo avviene nella condivisione, «senza porre distanza di privilegi, o diaframma di linguaggio incomprensibile» (n. 90). L’apice del credito dato all’uomo da parte di Paolo VI è raggiunto nell’allocuzione di chiusura del concilio Vaticano II (7 dicembre 1965). Nell’assise conciliare «la religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? Uno scontro, una lotta, un anatema? Poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del samaritano è stata il paradigma della spiritualità del concilio» (pp. 671-672). Ecco il nuovo umanesimo promosso dalla fede cristiana: la civiltà dell’amore è il criterio distintivo della fedeltà allo spirito conciliare.
De Giorgi ha aperto una strada convincente. Persino necessaria. La scuola italiana di spiritualità attende futuri approfondimenti in altri maestri della Chiesa contemporanea. Molte altre figure come don Primo Mazzolari, Giuseppe Lazzati, padre David Maria Turoldo, Giuseppe Dossetti, don Giulio Facibeni, Giorgio La Pira, don Arturo Paoli, Aldo Moro, il cardinale Carlo Maria Martini… potrebbero essere studiate sotto questa luce. Ne uscirebbe un cattolicesimo vivo, attuale e capace di abitare la crisi postmoderna. Ne verrebbe tratteggiata una spiritualità lontana anni luce dallo spiritualismo di moda nei salotti buoni del cristianesimo d’élite.
Il libro è un sasso lanciato: a noi il compito di raccoglierlo e rilanciarlo nei cuori delle persone nostro tempo. È un’eredità da non sprecare; un’autostrada aperta tutta da percorrere. Perché non provarci?

Bruno Bignami

Fulvio De Giorgi, La scuola italiana di spiritualità. Da Rosmini a Montini, Morcelliana, Brescia 2020, pp. 736

Questa recensione è stata pubblicata su “L’Osservatore Romano” del 27 febbraio 2021.

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