ESSERE, DIVENTARE VIANDANTI
NOI, “QUELLI DELLA VIA”
Marco Bertè
Nel cammino verso la nostra Assemblea soci, che si terrà il 30 novembre, stiamo pubblicando a puntate le riflessioni, o meglio la lunga meditazione sull’essere viandanti, che Marco Bertè, uno dei soci fondatori, ci ha donato con questa dedica: “Una meditazione dedicata agli amici dell’Associazione Viandanti, con il piacere di ricordare un’idea e un’amicizia”. Una preparazione remota della quale ringraziamo molto Marco. [V]
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Negli Atti degli Apostoli i primi cristiani sono presentati come “quelli della via”. Quelli che sono sulla via, che vanno lungo la via. Dunque, come viandanti. Ma viandanti in che senso? Non nel senso, tramandato da una vulgata che ancora resiste, di essere su questa terra di passaggio, in cammino verso altrove, verso una patria celeste, la vera l’unica patria. Non in questo senso. Ma nel senso che la “via” in cui sono e lungo la quale vanno è quella percorsa dal Gesù terreno dei Vangeli.
“Quelli della via” son detti così perché si pongono, sono alla sequela di Gesù. Non passano fugacemente nel nostro mondo, muovendosi verso un altrove sconosciuto e inconoscibile, ma cercano l’altrove, l’essere altrimenti, nel presente, nel qui ed ora. E dove e quando si danno il qui e l’ora, se non nella strada, in cui e lungo la quale vanno come viandanti?
Conviene dunque riprendere ed approfondire nella quotidianità le figure del viandante che abbiamo cercato, visitato ed interrogato [Abramo, Ulisse, Giacobbe, Giobbe, Gesù]. Esse costituiscono una specie di griglia attraverso cui leggere il cammino del credente nella chiesa che verrà.
Nel loro succedersi, come abbiamo già notato, hanno posto in luce due costanti: l’implicazione di sé ed altro da sé, inizialmente appena accennata e poi sempre più rimarcata, – e la decisiva crescente importanza dell’intervento divino, dapprima pressoché assente e poi sempre più determinante, fino ad assumere i toni d’una vera e propria lotta di Dio con l’uomo. È giusto dare spazio a queste costanti.
Visitare le varie forme del credere
Il primo passo da fare è camminare tra le forme del credere e dell’essere chiesa che si incontrano, stare in loro compagnia, rendersi conto della loro estrema varietà. Senza giudicare. Assaporando la vitalità che circola, che si diffonde, che attrae. E percepire che il nostro modo di essere credenti e di essere chiesa è reale e significativo nella misura in cui sta e si sente alla presenza di tutti gli altri modi ed è mosso dallo stesso spirito che li anima, paghi solo di fidarsi di Lui e affidarsi a Lui, al nostro Signore.
Su questa base possiamo proseguire il cammino e abitare la strada in cui ci troviamo e disporci ognuno ad ascoltare le narrazioni altrui. Non è facile prestare la dovuta attenzione. Siamo troppo frastornati dal generale sommovimento, dal persistere della Grande Pandemia, dal disorientamento in tanti campi, dall’incerta immagine di credi e comunità che non sappiamo né cosa siano né cosa possano diventare. Eppure, nonostante le difficoltà, dovremmo e vorremmo ascoltare, accogliere, condividere. Abitare la strada non significa convivere con chi la frequenta? Identificare, conoscere chi la abita?
E dunque, come ci hanno guidato le figure che abbiamo cercato, visitato, interrogato, così dobbiamo cercare, visitare, interrogare le varie forme, oggi, del credere e dell’essere chiesa – da quelle “altre” (ebraiche, islamiche, buddhiste, ecc.) a quelle cristiane e, tra queste, a quelle di tradizionalisti e novatori, conciliari e anticonciliari, rivoluzionari e conservatori, pro e contro Papa Francesco, ecc. – ed ascoltare le varie narrazioni, ridirle e riformularle fino a vivere e convivere nella pluralità delle fedi. Ancora, giova rammentarlo, senza giudicare. In fin dei conti ci ritroviamo tutti in Gesù Cristo morto e risorto e dobbiamo saperci UNO nel suo gesto misericordioso.
Attraverso i racconti, le narrazioni, la convivenza riusciamo a renderci familiari gli uni agli altri, a immaginare di conoscerci, forse anche a fare qualcosa assieme. Ma veramente ci conosciamo, sappiamo uno dell’altro? Veramente riusciamo a distinguere questo o quello nella congerie delle culture, delle religioni, delle fedi, delle opzioni più particolari?
Senza perdere se stessi
Ecco delinearsi una molteplicità, una potenziale infinità di mondi, di universi. E sorge, inevitabile, la domanda: verso dove andiamo? Verso tutto ciò che è altro da noi? Verso l’alterità? In un certo senso siamo affascinati dalla totalità delle espressioni religiose. Ci sembrano esprimere l’universalità delle esperienze e delle tradizioni dell’umanità. Vorremmo abbracciare tutto e tutti. Ma alla fine sentiamo il bisogno di scegliere. Dire questo sì, questo no. Includere qualcosa, escludere qualcos’altro. Accusare, difenderci. E vorremmo insediarci in un mondo particolare. Io nel mio, tu nel tuo. Gli altri, nel loro.
Allora, come ci si può muovere verso ciò che è altro, senza perdere noi stessi? Nelle figure che abbiamo considerato, come nelle vicende che viviamo, non sempre, ma spesso, assai spesso possiamo capire che un’avventura, un evento, una circostanza possono sempre escludere qualcosa o qualcuno. E così dobbiamo renderci conto che le opportunità che si offrono – dalle religioni orientali all’animismo, dalla New age alle pratiche yoga, dalle confessioni cristiane a quelle ebraiche a quelle islamiche – non possono convivere se non eccezionalmente. Le une escludono le altre.
L’attrazione delle fedi e delle chiese
Il viandante si lascia dunque prendere dal desiderio di insediarsi in una di queste espressioni e narrazioni. È una tentazione che non riesce sempre a vincere, che lo cattura ed affascina, e alla fine lo fa approdare alle figure di Ulisse ed Abramo.
Ove collocarsi? Verso dove incamminarsi? Verso un proprio modo di credere, con un movimento verso di sé, analogo a quello di Ulisse, o verso una alterità assoluta, come Abramo, e perciò verso un Assoluto compatibile con la pluralità delle fedi e delle chiese, nessuna delle quali può tuttavia dirLo veramente e coglierNe l’inesauribile ricchezza? Non è possibile fermarsi su una delle sponde, facendosi sordi al richiamo dell’altra sponda. Eppure non è una memoria solo letteraria quella di Ulisse e delle Sirene, né solo un mito quello di Abramo padre di un’infinita discendenza. Il viandante sceglie, ma non riesce a liberarsi dall’attrazione delle fedi e delle chiese. Solo successivamente è costretto a questo passo, quando altro o altri gli si oppongono, vantando la loro unicità e straordinarietà.
Il viandante resta attonito, interrompe il cammino, non può che opporsi e contrapporsi a ciò che lo minaccia. Si creano degli antagonismi. Come Dio mette alla prova Abramo, come lo sconosciuto lotta contro Giacobbe, come il Signore provoca Giobbe, come la volontà del Padre fa soffrire Gesù nell’orto degli ulivi, così si oppongono le fedi, i gruppi, le chiese, le opzioni più o meno radicali.
Si può vedere in tutto questo il manifestarsi della vita, il formarsi dello spirito collettivo, il convivere e combattersi delle culture o altro ancora. E ci si può chiedere: ma è Dio che consente o suscita o alimenta tutto questo? Sono questi antagonismi sufficienti a lacerare i tessuti ecclesiali, a svuotare e ischeletrire le fedi, a rendere sempre più difficile immaginare la chiesa che verrà?
Il viandante, il vero viandante, cammina e, camminando, entra in questa realtà, nonostante tutto se ne lascia attrarre e riesce, forse, a trarsene fuori e a condurla oltre. Vede qualcosa all’orizzonte. Vede e ricorda e sogna e spera le storie di Abramo, di Giacobbe, di Giobbe, di Gesù. E ciò che era loro e ciò che loro erano: non Dio contro l’uomo per negarlo, ma Dio di fronte all’uomo per riconoscerlo e farsi riconoscere. E riprende il cammino.
Contraddizioni, opposizioni, contese
Il viandante ormai sa che le differenze delle fedi e delle chiese portano contraddizioni, opposizioni, contese. Lo sa e lo vive, camminandovi in mezzo. E naturalmente ne soffre. Ma si ostina a cercare una loro radice comune, una forza da cui sgorghino.
Scorge, forse, l’ispirazione fondamentale di ognuna di esse, riesce a liberarle dalle incrostazioni accumulate negli anni e crede di vederle scaturire da quella radice comune. Sa bene di non poter ignorare varietà, differenze, contraddizioni, opposizioni, contese. Ma confida che si possano accogliere le ispirazioni fondamentali delle fedi e delle chiese, proprio perché scaturienti da una radice comune.
Purtroppo spesso si illude. Vorrebbe amicizia, trova ostilità. Deve accettare il confronto, non può ignorarlo. A che cosa dunque potrà portarlo? A perdere la propria identità? A dimenticare la prospettiva d’una chiesa che verrà? A lasciare il posto ad altri, che distruggano ogni differenza? Non si sa.
Non lo sa nemmeno il nostro viandante. Egli sa solo che qualunque forma del credere, personale o comunitaria, scaturisce dall’iniziativa di Dio che si manifesta e chiama e dalla risposta dell’uomo che ascolta ed accoglie. E tutto, la recezione dell’iniziativa divina come la formulazione della risposta umana, si colora delle caratteristiche fenomeniche specificamente umane, perché avviene nel e grazie al contesto storicamente determinato degli accadimenti, delle culture, delle situazioni.
Attendere e sperare
È in tale contesto che si incarnano e vivono le forme del credere, tanto da distinguersi chiaramente le une dalle altre, fino ad opporsi e contrapporsi reciprocamente. La loro varietà e le inevitabili contese colpiscono e fanno soffrire il viandante. Egli vorrebbe credere che se il contendere può portare al rifiuto e all’ostilità, fino alla eliminazione dell’altro, esso può anche mirare al riconoscimento dell’altro e all’approfondimento della propria identità attraverso il confronto con chi si oppone. Come potrebbero insegnarci le vicende di Abramo, di Giacobbe, di Giobbe e di Gesù.
Il viandante, in sostanza, vorrebbe muoversi verso la prospettiva dell’ecumenismo e de dialogo interreligioso. Ma purtroppo raramente le cose procedono secondo i nostri desideri. È giusto essere realisti e rendersi conto che le cose vanno diversamente. Le più coraggiose forme di ecumenismo e di dialogo interreligioso sono destinate al fallimento. O potranno realizzarsi, al massimo, all’interno di gruppi contrapposti. Le contrapposizioni vi sono sempre state e molto probabilmente vi saranno sempre. Soprattutto quando sono accompagnate e stimolate da circostanze culturali, economiche e politiche, come quelle odierne decisamente drammatiche.
Il viandante prende atto, allora, della situazione e decide – lui, con gli altri viandanti che lo hanno incontrato e lo hanno accompagnato lungo il cammino, condividendo esperienze, paure e speranze – di lasciare ogni ricerca. Si rende conto, finalmente, di non potere confidare nelle proprie forze, di non riuscire a trovare ciò che insegue dagli inizi del suo andare. Si ferma. Attende e spera. E nemmeno osa bussare a porte altrui. Sta in ascolto. Attende e spera che altri bussino alla sua porta. Ed è ciò che avviene. Bussano alla sua porta. Come sta scritto nell’Apocalisse è il Signore stesso che bussa.
Marco Bertè
Socio fondatore di Viandanti e membro del gruppo “Oggi la Chiesa” (Parma) che aderisce alla Rete dei Viandanti.
[Parte sesta]
Essere, diventare viandanti
1. Camminare verso dove?
2. Ulisse e Abramo
3. Il contendere dell’uomo con Dio
4.L’itineranza e la lotta di Gesù
5. Verso l’Alterità’?
– – Nota – – – –
Questo editoriale è tratto da un testo più ampio intitolato, Essere, diventare viandanti. Verso dove? La versione integrale, in cartaceo, verrà consegnata ai partecipanti della prossima Assemblea dei soci di “Viandanti” (Parma, 30 novembre 2024).
[Pubblicato il 21.11.2024]
[L’immagine che correda l’articolo è ripresa dal sito: www.it.wikipedia.org]