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Il Buon Samaritano (1650 ca.-1670 ca.), Giovan Battsita Langetti (Accademia Carrara, Bergamo)

FINE VITA:
QUALE ACCOMPAGNAMENTO?

Paolo Benciolini

L’altro ieri: divorzio (1970), ieri: aborto (1978), oggi: suicidio assistito (2019), domani: eutanasia. Che fare?

Di fronte a queste innovazioni normative che toccano temi di grande rilevanza etica e sociale, quali insegnamenti dall’esperienza? Quali atteggiamenti, quali scelte per chi intende operare con responsabilità in ambito sociale?

L’esperienza nata da due leggi
L’introduzione della legge sul divorzio è arrivata prima della riforma del diritto di famiglia (1975) e, nello stesso anno, della legge sui consultori familiari. Ma già da diversi anni iniziative spontanee, molte anche in ambito ecclesiale, avevano anticipato esperienze di consulenza (medica, psicologica e assistenziale) alla coppia e alla famiglia (Il consultorio familiare UCIPEM di Padova era stato istituito già nel 1957!). Così la problematica introdotta dal divorzio aveva trovato operatori preparati a svolgere un ruolo costruttivo, volto soprattutto a stare accanto a chi vive difficoltà e drammi nella relazione coniugale.

L’introduzione della legge sulla interruzione volontaria della gravidanza (ivg) aveva aperto un nuovo ambito di lavoro consultoriale, non tanto perchè il tema dell’aborto giungesse per la prima volta all’attenzione degli operatori, ma per le specifiche previsioni della legge, che individuava nell’ “incontro” con la donna che intende chiedere l’ivg un momento di riflessione volto ad una scelta più consapevole.

In entrambi i casi è stato dunque possibile valorizzare (o addirittura “scoprire”) uno specifico possibile ruolo degli operatori sanitari e sociali per evitare, nella applicazione delle due leggi, interventi meramente burocratici e acriticamente formali, puntando piuttosto sia sulla prevenzione di eventi comunque dolorosi sia sull’accompagnamento verso scelte meditate e responsabili.

Come utilizzare oggi queste costruttive esperienze di fronte alla legalizzazione (pur in mancanza di una legge ad hoc, è ormai sufficiente la sentenza della Corte Costituzionale n.242 del 2019) del “suicidio assistito”? E in previsione (che va considerata evenienza concreta, sia pure senza scadenze immediate) di una norma che legalizzi l’“eutanasia”?

Due sembrano gli obiettivi principali da riproporre, costruttivamente, anche per queste importanti e delicatissime innovazioni normative. In primo luogo la prevenzione di scelte che tutti sentiamo, comunque, drammatiche; in secondo luogo la presenza competente, rispettosa e umanamente ricca accanto a chi intendesse compierle.

Organizzare la prevenzione
In ordine alla prevenzione di scelte ispirate (e spesso condizionate) dalla sofferenza, esiste in questo caso uno specifico, importante e potenzialmente efficace strumento: il ricorso alla terapia del dolore e, più ancora, alla medicina palliativa. È quindi necessario potenziare i servizi ospedalieri ma sviluppare anche quelli territoriali, ma soprattutto promuovere la formazione di base dei professionisti sanitari (medici, anche non specialisti, e infermieri) perché, appunto, la medicina palliativa non si identifica (né si esaurisce) nel trattamento farmacologico.

La legge n.38/2010 ha introdotto in ambito sanitario una prospettiva (direi una vera e propria “filosofia”) del tutto nuova, sia per le sue finalità specifiche che per la metodologia degli interventi palliativi. Basta richiamare la definizione introduttiva di “cure palliative”: “l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici”.

È solo da integrare quest’ultima parte della definizione ricordando che l’esperienza applicativa della legge ha esteso il ricorso della palliazione anche a casi meno legati a scadenze drammaticamente ravvicinate, tanto che si parla oggi della sua “simultaneità” rispetto alle cure tradizionali.

Identità e ruolo di chi deve assistere
Ed ecco, dunque, che agli interventi volti a prevenire scelte drammatiche in ordine alla propria vita, si associa il ruolo di chi (a cominciare dallo stesso palliativista, ma non solo) è chiamato a realizzare con la persona sofferente un cammino che potrebbe condurre alla decisione di porre fine alla propria esistenza.

Nella prospettiva di una (necessaria) regolamentazione delle procedure di “suicidio assistito” (ma, va detto con chiarezza, anche di interventi eutanasici, previsione da ritenersi forse oggi non a breve scadenza ma comunque concreta), è importante soffermarsi su come costruttivamente delineare l’identità e il ruolo delle figure che potrebbero stare accanto alla persona sofferente.

In primo luogo un medico. Quale medico? Facendo tesoro della normativa (e dell’esperienza) in tema di interruzione volontaria della gravidanza, dovrebbe essere indicato come “medico di sua fiducia”, non quindi necessariamente il medico di medicina generale convenzionato e nemmeno un particolare specialista, ma proprio quel medico che la persona sofferente ritiene sia in grado di garantire quel rapporto di “fiducia” nella situazione che sta vivendo concretamente.

Quel medico che, realizzando tale relazione di reciprocità, potrà poi, eventualmente, in coscienza, attestare l’esistenza di “sofferenze fisiche o psichiche” dal paziente ritenute “intollerabili”, uno dei requisiti, indubbiamente il più “soggettivo” tra quelli indicati dalla Corte per giustificare la liceità del trattamento.[1]

Ma anche altre possibili figure professionali (penso in particolare a competenze psicologiche), che potrebbero essere messe a disposizione, ma sempre se accolte dall’interessato, per una riflessione più ampia e, in ultima analisi, più meditata e serena.

Né si possono dimenticare i familiari (e gli amici, nella più ampia comprensione del concetto di “nucleo familiare”), al cui riferimento richiama esplicitamente la legge 38/2010.

Un buon samaritano sconcertante
Ma perché non prevedere la possibilità che la persona sofferente chieda di avere accanto chi lo possa aiutare a pervenire consapevolmente ad una scelta che lo coinvolge anche sotto il profilo della sua spiritualità? Mi rendo conto che, più ancora che per le altre figure indicate, quella del prete/religioso potrebbe essere esposta al rischio di un condizionamento non rispettoso del diritto alla autodeterminazione.

E’ un rischio che abbiamo già paventato (in altro contesto, ovviamente) per l’“incontro” della donna che chiede l’ivg, ma la soluzione non sta nell’escludere, per principio, determinate figure in base al loro personale dichiarato convincimento etico, ma nel garantire che l’incontro sia rispettoso e la scelta finale frutto di una riflessione relazionale meditata e libera.

Anche per questo devo dichiarare il mio forte sconcerto per una (categorica) affermazione contenuta nel documento della Congregazione per la Dottrina della Fede (2020) “Samaritanus Bonus”. Nel capitolo dedicato al “discernimento pastorale verso chi chiede eutanasia o suicidio assistito, si afferma che “non è ammissibile da parte di coloro che assistono spiritualmente questi infermi alcun gesto esteriore che possa essere interpretato come una approvazione dell’azione eutanasica, come, ad esempio, il rimanere presenti nell’istante della sua realizzazione. Tale presenza può essere interpretata come complicità. Questo principio riguarda in particolar modo, ma non solo, i cappellani delle strutture sanitarie ove può essere praticata l’eutanasia, che non devono dare scandalo, mostrandosi in qualsiasi modo complici della soppressione di una vita umana”.

Condivido il pungente commento di Corrado Viafora: “Si ha l’impressione purtroppo che in questo caso la logica del buon samaritano ceda il posto alla logica del sacerdote e del levita” (“Samaritanus bonus. La dignità al centro ”, Il Regno Attualità, LXV, 22/2020, p.665).

Il caso Veneto
Quando queste considerazioni erano già state scritte sono intervenuti due fatti nuovi, entrambi legati alla situazione creatasi nel Veneto a seguito della proposta di legge regionale di iniziativa popolare promosso dall’Associazione Coscioni (PDL n.217) sul suicidio medicalmente assistito e che non possono essere ignorati e che, anzi, consentono di riprendere e integrare quelle osservazioni.

Il primo è costituito dal documento della Conferenza Episcopale del Triveneto (elaborato con la Commissione per la Pastorale della Salute del Triveneto) del 18 ottobre 2023.

Sul documento dei Vescovi del Triveneto, “Suicidio assistito o malati assistiti?”, qualche sintetica osservazione. Alcune importanti e positive come quando prende atto delle “condizioni molto stringenti” della sentenza della Corte Costituzionale e non può quindi fare a meno di riconoscere la sua aderenza ai principi costituzionali. O quando sottolinea l’importanza delle cure palliative e si lamenta (giustamente) che le stesse non siamo adeguatamente diffuse ed accessibili a tutti.

Per contro chi conosce la realtà e le positive esperienze (proprio nel Triveneto esperienze ormai ultraventennali!) dei Comitati etici non può che rimanere stupito di quanto nel documento si afferma. Infatti, dopo aver riconosciuto che “È compito delle Regioni favorire luoghi di confronto e deliberazione etica quali sono i Comitati”, si afferma testualmente che “essi sono poco diffusi sul territorio nazionale e spesso fatti intervenire quando tutto è già stato deciso, vanificando la funzione del Comitato stesso o mettendolo di fronte alla ratifica quasi obbligata delle decisioni assunte da altri”. Affermazioni che inducono a chiedersi a chi si siano rivolti gli estensori del testo, che pure avevano a disposizione interlocutori altamente qualificati anche in ambito ecclesiale!

Il secondo fatto è costituito dalla “sorte” del PDL che, dopo essere stato a lungo esaminato dalla competente Commissione consiliare, giunto il 16 gennaio 2024 all’attenzione dell’aula, è stato immediatamente bocciato.

Nel corso dei lavori della Commissione consiliare competente vi erano state numerose audizioni di associazioni ed enti, alcuni dei quali avevano presentato importanti e concrete proposte volte a migliorare il testo nel solco dei principi indicati dalla della Corte Costituzionale e sulla base di importanti approfondimenti multidisciplinari e interdisciplinari.

Ricordo, in particolare, in sintesi, i punti qualificanti proposti dal gruppo “per un Diritto Gentile” (del quale chi scrive fa parte) e che così cerco di sintetizzare:

1. La promozione delle cure palliative e il loro inserimento (previa adeguata informazione del paziente e il suo condenso) nella procedura.
2. Il ruolo, anche di accompagnamento (mediante “l’ascolto attivo del richiedente”) dei Comitati Etici per la pratica clinica (che la Regione Veneto ha attivato con propria normativa fin dal 1999).
3. I tempi di attuazione della procedura con superamento dei termini previsti dal PDL, troppo ristretti e che possono condizionare la qualità delle valutazioni connesse agli adempimenti previsti, in particolare per consentire un contributo del Comitato etico che sia adeguatamente attento, meditato e rispettoso di ciascuna richiesta gli venga proposta, sempre e ogni caso capace di autentico accompagnamento di quella persona.

Il problema, tuttavia, non è stato cancellato dal voto negativo del Consiglio Regionale veneto. Con la caduta del PDL proposto in questa Regione (ma non solo in questa) e tenendo presente l’attuale orientamento politico è difficile pensare ad una ripresa immediata delle iniziative in sede parlamentare. Il tempo a disposizione è comunque prezioso per continuare ad approfondire il problema nelle singole situazioni concrete e fornire fin da ora al legislatore esperienze positive di applicazione dei principi fissati dalla Corte Costituzionale, che rimangono un riferimento obbligato e che non può essere ignorato.

Paolo Benciolini
Ordinario i.q. di Medicina legale Università di Padova, già presidente del Comitato Regionale di Bioetica della Regione Veneto.

– – Note – – – – –
[1] I requisiti sono: che il richiedente sia affetto da patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psichiche da lui ritenute intollerabili, che sia tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, che sia capace di prendere decisioni libere e consapevoli e che il proposito di suicidarsi si sia formato autonomamente e liberamente.

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[Pubblicato il 7.2.2024]
[L’immagine che correda l’articolo è ripresa dal sito: https://www.lombardiabeniculturali.it]

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