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Affresco bizantino raffigurante il Concilio di Nicea nella Basilica di san Nicola di Myra (Demre, Turchia)

IL CREDO: DA RIESAMINARE E RISCRIVERE

Giancarla Codrignani

Il titolo della recente 54° Sessione del Segretariato Attività Ecumeniche (23-29 luglio) era coraggioso e provocatorio. “E’ parso bene allo Spirito santo e a noi” (At 15, 28) sottintende il riconoscimento di una Chiesa fatta di ebrei che si sapevano “cristiani”, ma interpretavano come tutti la Torah anche se la leggevano alla luce del pensiero non escludente di Giacomo che, fidando nella nuova Parola (“perché cerchino il Signore anche gli altri uomini e tutte le genti sulle quali è stato invocato il mio nome, dice il Signore, che fa queste cose” [At 15, 17-18]), apriva ai pagani.

Fine della cristianità immobile
In questa lettera comunitaria (At 15, 23-29) gli apostoli insegnano a superare il costante analfabetismo dei credenti – in primo luogo noi cattolici, i più numerosi tra i cristiani – che, quanto meno nel 2017, non possono adagiarsi nel semplicistico riconoscimento di un Dio trascendente e in Chiese dell’obbedienza.

Gli apostoli e gli anziani della comunità di Gerusalemme,  infatti, proclamano: “È parso bene allo Spirito santo e a noi“. Affermazione temeraria? Ai nostri giorni, stranamente, sembra di sì. Infatti, contro ogni sottomissione all’ormai secolare dogmatismo, autorizzava Ernesto Balducci a dire che proprio “le chiese del dogma” sono quelle che “si difendono dagli assalti dello Spirito santo”.

E autorizza il terzo millennio a rendersi conto che il sistema di immobile cristianità è irreversibilmente finito: l’evangelizzazione – lo sostenevano ad Assisi in particolare Severino Dianich e Gianfranco Bottoni – va liberata per diventare davvero “diritto e dovere di tutti”. Mantenerla immutata quando una tradizione non è più feconda mette a rischio l’insieme.

Un testo da riesaminare
Paolo Ricca, all’interno di uno degli interventi più profondi della comune vocazione ecumenica (come dimenticare la sua appassionata dichiarazione “io, valdese, non basto a me stesso, ho bisogno di te per essere cristiano migliore”), invitava a fare memoria della Riforma di Lutero per affrontare una nuova riforma, quella del secolo XXI.

In particolare ha citato come problema, che necessita di essere riesaminato, il “credo” cristiano, sottolineandone vuoti di senso che, se si diventa consapevoli della ripetitività passiva della “recita”, davvero sconcertano: non c’è memoria della vocazione di Israele; che Dio sia creatore è insufficiente; manca la parola Amore; “parlò per mezzo dei profeti” e il passato remoto elimina la profezia; la rappresentazione di Gesù si limita al “nacque, morì, fu sepolto” senza ricordare che è vissuto ha chiamato, guarito, che ci salva ancora nonostante la crocefissione che ci vuole peccatori.

Non è un segreto che in molte parrocchie si tentano innovazioni liturgiche e che alcune inventano nuove formule per definire l’oggetto della fede della comunità: la creatività è sempre positiva, ma non è accettabile che se ne esca con un’anarchica coperta di arlecchino.

Allo Spirito e al popolo di Dio è parso bene
Dobbiamo fare i conti con la Nicea del 325 d.C., quando ai vescovi – e indirettamente a noi che non c’eravamo – “parvero bene” le parole del Credo; forse lo Spirito non voleva venire imprigionato per sempre in un blocco dogmatico.

Allo stesso modo a Trento (nemmeno lì eravamo presenti, ma siamo rimasti obbligati) allo Spirito “parve bene” inceppare i sacramenti di cui assumiamo responsabilità personale.

L’obbedienza, che il consacrato deve alla Chiesa (e/o allo Spirito?) diventa convenzione che obbliga fedeli non necessariamente teologi, a restare prigionieri di prescrizioni clericali e di consuetudini rituali solo apparentemente irreformabili.

La Chiesa cattolica – un’aggravante dell’immobilismo – ha disubbidito ad un recente Concilio, il Vaticano II che ha collocato il popolo di Dio al primo posto, davanti alla gerarchia, e gli ha donato autonomia.

Invece anche tra i fedeli sembra tornata l’accettazione in bocca del dono eucaristico: evidentemente piace restare bambini, non sentirsi così adulti da assumersi la responsabilità della memoria del Salvatore.

Un testo da riscrivere
Se si rinuncia alla parrhesia (che è di tutti singolarmente) non esiste condivisione comunitaria: interpellare i maestri e scomodare le autorità significa solo, nella Chiesa, assumersi la responsabilità battesimale.

Se non si pongono “insieme” le domande sulle questioni che intrigano, non si realizzerà mai quel “dialogo” nominato invano e si finirà per non confessare che ci si annoia proprio mentre si onora il precetto del “sentir messa”, rito più o meno sempre uguale dai giorni tridentini, fatta salva la riduzione dal latino ai volgari del mondo, ancora criticata da qualche fissista.

Perché è ben chiaro che non si tratta di sentirsi più o meno in sintonia con i contenuti dell’omelia, ma della percezione che l’assemblea non sta assolutamente pensando alle parole di un “credo” che non è solo della Chiesa, bensì “mio”.

Appare dunque urgente pensare ad una riscrittura del “Nicenocostantino-politano” (e del più suggestivo “Credo apostolico” di antichissima trasmissione orale e attestata nel sinodo milanese di Ambrogio) perché i cristiani non ne sentono l’autenticità come quando si scambiano quel simbolo di pace, unico segno liturgico nuovo, che si fa gesto della mano e sorriso del sentimento.

Principi divenuti opachi e illeggibili
Nel 2017 d.C. le religioni non riescono a perseguire più, nemmeno formalmente, i fini predicati dai loro messaggi: sono organismi culturali viventi e abitano la crescita evolutiva dell’umanità.

I principi continuano ad apparire punti di riferimento di certezze consolanti, ma sono divenuti opachi per mancata ossigenazione e le dispute sul filioque, pur causa dello scisma d’Oriente, non possono appassionare una fede isterilita, che ha smarrito le determinazioni di verità immutabili per fede, ma non più leggibili dalle generazioni che nella concretezza della vita sono venute usando linguaggi non più compatibili con la fissità “esemplare” della tradizione, responsabile di fondamentalismi, di violenze e di guerre e corrotta dalla superstizione, dal fanatismo, dalla sottomissione al principio d’autorità.

La Chiesa, poiché è anche un corpo sociale non separato e interagisce con i contesti civili, deve mantenersi sale della terra e contribuire positivamente al bene comune, senza collusioni di potere e (reciproche) strumentalizzazioni. Dopo la prima comunità dei discepoli ha dovuto fare i conti con la diversità sia delle opinioni interne alle comunità, sia dei valori predicati in territori di altra cultura: scelse il confronto e concluse assumendosi la responsabilità: “parve bene allo Spirito e a noi”.

Dare risposte urgenti a nuove esigenze
Per tre secoli l’aspirazione universalistica fece i conti con l’imperatore romano e fu Costantino a convocare e presiedere il Concilio, poi confermato, a Costantinopoli, da un secondo Concilio da Teodosio, che aveva già adottato il Cristianesimo a religione dello Stato.

Teologicamente a Nicea era parso bene risolvere i problemi dell’umanità di Cristo (nato, creato o generato da Dio?) e della sua natura (o anche sostanza, essenza, persona) e non senza difficoltà si era pervenuti ad un accordo dottrinale reso valido per tutti dall’imperatore, pena l’esilio per gli oppositori: come sempre i dogmi hanno una storia, che forse non risulta piacere per sempre allo Spirito santo (e a noi).

Oggi il futuro del Cristianesimo non ha bisogno di nuove Nicee o nuove Calcedonie: il Vaticano II, proprio per essere pastorale e non dogmatico resta ad indicare il metodo per incanalare l’energia repressa in secoli costruttori di muri per aprire ponti verso un futuro ancora ignoto, ma già ora sicuramente incompatibile con norme che impediscono di dare risposta urgente a nuove esigenze di spiritualità e di prassi con lo stesso coraggio di quando “piacque” accogliere i pagani.

Mettersi in sintonia con i “segni dei tempi”
La Sacrosanctum Concilium ha cambiato il concetto di azione liturgica e oggi comporta che non il solo clero ma il popolo sia attore e Andrea Grillo conforta a pensare che il Vaticano II sia stato “un grande atto di traduzione” in cui l’eucaristia è “il segno” della fede, mentre la forma e il ruolo della materia eucaristica e il ministro non sono più immutabili.

Giovanni XXIII, il papa riformatore che volle il Vaticano II “pastorale e non dogmatico” perché conosceva bene la pericolosa vetustà della sua Chiesa, salutò pubblicamente don Primo Mazzolari come “Tromba dello Spirito Santo”, anche se la Chiesa lo aveva fatto soffrire per incapacità di accettare uno che – lo diceva Paolo VI –  “camminava con il passo troppo lungo e spesso noi non gli si poteva stare dietro”. Giovanni XXIII aveva tutto il diritto di sapere che cosa pareva bene allo Spirito Santo e di dirlo a nome di tutti, perché sperava che stessimo attenti ai segni dei tempi e li mettessimo in sintonia con i principi per portarli oltre gli ostacoli e le trasformazioni della storia a costruire pace per tutti.

Purtroppo il Vaticano II è ormai lontano e per il sessantenne di oggi – che cinquant’anni fa andava alle elementari – è un Concilio come gli altri. Figurarsi i giovani per i quali Dio non è la religione e non è la Chiesa. Ma, come dice Josè Maria Castillo, in ogni caso le strade di Dio, di Gesù non dovrebbero essere le strade, possibilmente accessibili, della Chiesa?

Dopo quasi due millenni da Nicea
Tra otto anni saranno trascorsi ben 1.800 anni dal Concilio di Nicea e Bartolomeo I, patriarca di Costantinopoli, dopo l’incontro della primavera scorsa con papa Francesco, ha annunciato un grande appuntamento per dare un segno altrettanto storico a conclusione della missione dei due pastori: un sinodo ecumenico per l’unità fra cattolici e ortodossi che nel 2025 si ritrovano insieme dove è stato celebrato il primo “vero” concilio ecumenico di una Chiesa indivisa.

Un impegno di grande rilievo in una “Terra Santa” in cui si deve camminare davvero, usando le parole di Bartolomeo, senza i timori dei due discepoli  mrntr procedevano verso Emmaus, ma ispirati dalla speranza donataci dal Signore.

C’è timore, credo, tenendo conto che l’ortodossia è ben lontana dall’essere unita, che tornino le discussioni sul filioque o, sempre per la soddisfazione di filologi e teologi, quale traduzione si deve dare oggi al testo greco niceano.

Comunque vedremo, anche perché, come scriveva Alberto Melloni in uno dei suoi contributi a Repubblica, il vecchio Credo “cerca di far rivivere le rime nascoste della fede comune e il battere di quell’ ‘uno’ che sembra un ritornello: il Dio uno, il Figlio uno, la chiesa una, il battesimo uno”.

Giancarla Codrignani
Giornalista, socia fondatrice e membro del Consiglio direttivo di Viandanti.

[Pubblicato il 24 settembre 2017]
[L’immagine è ripresa dal sito chiesariformataperugia.it]

1 Commento su “IL CREDO: DA RIESAMINARE E RISCRIVERE”

  1. Grazie, bell’articolo. Richiamo urgente, al di là della nostra possibilità di riformare il Credo, di sollecitare anche Viandanti a pensare i nodi teologici e non solo ecclesiologici, che peraltro stanno sempre insieme.

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