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don Giuseppe Masseroni

IL TESTAMENTO DI UN PRETE BATTEZZATO.
IN DIALOGO CON DON GIUSEPPE MASSERONI

MichaelDavide Semeraro 

Quello che don Giuseppe ha lasciato alla sua comunità e, indirettamente, alla Chiesa si può definire il “testamento di un prete battezzato” (cliccare qui). Per un libro che ho pubblicato ormai un anno fa avevo osato un titolo provocatorio: Preti senza battesimo?. [1]

La parte più importante di questo titolo è il punto interrogativo. Il rischio per un prete è di essere talmente preso dalla sua “funzione” da dimenticare che il battesimo è il fondamento non solo della fede, ma di ogni ministero nella Chiesa a servizio dell’umanità.

Una pro-vocazione per pensare e sperare insieme
Quando don Giuseppe chiede ai suoi fratelli presbiteri e persino al suo vescovo di stare seduti tra i fedeli per la celebrazione del suo funerale, non vuole certo mancare di rispetto né ai presbiteri, né al Vescovo.

Forse la sua è una pro-vocazione per far sì che una celebrazione come il funerale di un prete – conosciuto e amato da molti – non sia vissuto in due registri, preti da una parte e fedeli dall’altra, ma come un solo ed unico corpo che non fa casta.

Infatti, per esistere e per esprimere il proprio mistero la Chiesa che si manifesta in comunità celebrante non ha bisogno che di una semplice presidenza senza che questa si trasformi in una passerella di “funzionari”.

Ogni provocazione come quella che don Giuseppe ha lanciato “in articulo mortis” esige un’accoglienza intelligente e generosa come un invito a pensare per sperare. Il testamento di don Giuseppe è uno stimolo a pensare per non smettere di sperare.

Non raramente dimentichiamo che la mancanza di speranza anche nella Chiesa è legata alla poca fantasia nel pensare e nel pensare insieme. L’esperienza pluridecennale vissuta attorno a don Giuseppe è stata un vero laboratorio di pensiero non fine a se stesso, ma per costruire infaticabilmente le ragioni di una speranza da condividere con tutti.

La comune dignità battesimale di tutti i credenti
Al cuore della testimonianza di questo prete, che si definisce prima di tutto “contadino”, vi è la sapienza delle parabole del Vangelo. Quando il Signore Gesù parla del Regno di Dio usa un’immagine come quella del seme e commenta: “dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come egli stesso non lo sa” (Mc 4, 27).

Alla fine di una lunga e operosa vita come quella di don Giuseppe si può ben dire che il “granello di senape” ha fatto “rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra” (4, 32). Penso a tutti coloro che per tanti anni hanno usufruito della sua parola, del suo consiglio, del suo conforto e che si sono confrontati con lui e attorno a lui. Penso anche a quanti indirettamente hanno potuto beneficiare della lampada accesa della sua vigilanza perché l’intuizione del Concilio non solo non si spegnesse, ma diventasse ancora più luminosa.

Nel suo testamento viene ribadita e in certo modo affidato come compito l’intuizione della comune dignità battesimale di tutti i credenti come pure la “relatività” del ministero ordinato che va continuamente ricompreso in modo sempre meno clericale e sempre più discepolare.

La testimonianza e l’intelligenza di don Giuseppe ha cercato di non prestare il fianco all’ambiguità ermeneutica del Concilio Vaticano II. Per ambiguità ermeneutica intendo quella sorta di danza interpretativa, più o meno riduttiva di quanto la Chiesa ha vissuto per incitamentum divinum, come ebbe a dire Giovanni XXIII, durante la celebrazione del Concilio Vaticano II.

La bomba disinnescata, ma non rimossa
A distanza di più di mezzo secolo, bisogna riconoscere che la “bomba” di incremento di intelligenza del Vangelo da vivere nel mondo contemporaneo innescata dalla presa di coscienza e dalle decisioni dei Padri conciliari, è stata, sin da subito, disinnescata. Questo non vuol dire affatto che non siano avvenuti dei cambiamenti, al contrario.

Nello stesso tempo, sin da subito, l’intuizione fondamentale del Concilio Vaticano II, che, dopo secoli, era riuscito a metabolizzare e integrare la parte profetica dell’invito di Lutero che richiamava la Chiesa a ritornare alla nudità del Vangelo, è stata ampiamente addomesticata. La bomba del Concilio, che avrebbe dovuto far saltare l’immagine di una Chiesa doppiamente piramidale – quanto all’esercizio dell’autorità e all’esperienza della santità -, è stata immediatamente disinnescata per evitare un’esplosione che avrebbe creato una insanabile scissione interna.

La recente canonizzazione di papa Paolo VI con il vescovo Oscar Romero rappresenta la presa di posizione che dal Concilio non si torna indietro, anche se non è stato facile farlo andare avanti dopo la sua non facile conclusione. Ci piace immaginare il Concilio Vaticano II come una bomba disinnescata, ma non rimossa!

Di fatto, la presa di coscienza della preminenza del servizio su ogni privilegio di dignità ministeriale e la centralità fondamentale del battesimo, come elemento di parità nella vita della Chiesa pur nella diversità non sono mai state negate dottrinalmente. Nondimeno sono state interpretate in modo sempre più riduttivo nel corso di questo mezzo secolo di ricezione conciliare che ci separa dalla sua conclusione.

Papa Francesco, con le sue parole e i suoi gesti, ha fatto uscire la Chiesa da questa ambiguità ermeneutica per lanciare il cammino dei credenti in una sempre più audace obbedienza allo Spirito del Signore Risorto.

Un sogno di Chiesa
Il testamento di don Giuseppe è la testimonianza di un prete che ha voluto rimanere un battezzato desideroso di diventare discepolo del Vangelo nel solco dell’intelligenza del Concilio Vaticano II. Il suo sogno di una Chiesa capace di essere sempre più disarmata e disarmante si è fatto segno nella sua vita e nella sua morte. Quando si riceve un testamento da una parte si diventa più ricchi e, dall’altra, ci si ritrova un po’ più poveri. Se la morte di persone come don Giuseppe ci fanno sentire un po’ orfani, proprio la loro morte ci mette in condizione di portare avanti il loro segno mai nella forma della nostalgia, ma dell’audacia e di una fedeltà creativa e innovativa.

Il senso di gratitudine nei confronti di don Giuseppe, si trasforma così in impegno a non lasciarsi intimidire da quelle tendenze a tornare indietro, per andare coraggiosamente avanti sulle vie del Vangelo che preparano l’avvento del Regno.

Fr. MichaelDavide, osb
Monaco benedettino – Monastero “Koinonia de la Visitation” (www.lavisitation.it).
Fraz. Bruil, 53 – 11010 Rhêmes-Notre-Dame (AO)

– – – – – – Articoli di fr. MichaelDavide Semeraro nel nostro sito:

Nei monasteri si aspetta il domani di Dio?
Sulla Costituzione apostolica Vultum Dei quaerere (29.6.2016) sulla vita contemplativa femminile

Temi del Sinodo. Le chiavi della casa di Dio sono per tutti
Sui temi del Sinodo sulla famiglia (2014-2015)


[1] Preti senza battesimo? Una provocazione non un giudizio, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2018.

1 Commento su “IL TESTAMENTO DI UN PRETE BATTEZZATO.
IN DIALOGO CON DON GIUSEPPE MASSERONI”

  1. Grazie per questo articolo! Anch’io ho conosciuto un “don Giuseppe” (il gesuita p. Mario Bit) e anche di lui ho nostalgia. Posso dire che sento molto fortemente il bisogno di una diversa liturgia, più partecipata. Solo il celebrante può coinvolgere i fedeli a non essere spettatori, ma concelebranti e questo lo fanno in pochi. A Trieste, nel clima di paura che vivono i preti a causa del vescovo, che io sappia non lo fa nessuno. Oggi ho seguito la Messa in TV perché non sto bene e mi chiedevo chi possa essere attratto da una liturgia così …asettica. Bravo il Cardinale, ma tutto, a cominciare dal canto, sembrava uno spettacolo, non la comunione dei battezzati tra loro e il Signore Gesù.

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