ISRAELE-PALESTINA:
UN PO’ DI STORIA PER CAPIRE
Paolo De Stefani
La Risoluzione 181/1947 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha operato una scelta che ancora oggi è controversa, ovvero quella di dividere il territorio palestinese (definito in base al mandato della Società delle Nazioni al Regno Unito) tra i due popoli che in quel momento lo abitavano, quello arabo-palestinese e quello israeliano.
Altre soluzioni erano possibili: stato bi-nazionale o consociativo, sul modello del Libano, stato federale o confederale con una cantonizzazione spinta sul modello svizzero, oppure il permanere di una amministrazione fiduciaria dell’ONU con ampia autonomia lasciata ai territori, ecc.
Motivazioni politiche profonde (la forza del movimento sionista, le spinte del nazionalismo arabo, e naturalmente il contesto bellico e post-bellico), unite a contingenze internazionali (un effimero allineamento tra USA e URSS) hanno condotto le Nazioni Unite – fortemente condizionate dagli USA di Truman– a preferire la scelta dei “due popoli – due Stati”.
La navigazione a vista della Gran Bretagna
La Gran Bretagna, dopo avere promesso (con Balfour, nel 1917) un “focolare” (“home”, cioè, al di fuori di metafora, uno Stato) ebraico ai sionisti, negli anni del mandato internazionale sulla Palestina (1922-1948) non aveva saputo creare i presupposti per uno Stato unitario, bilanciando e portando a sintesi le esigenze degli arabi e degli ebrei, e aveva scontentato entrambi i fronti. Del resto, in nessuno degli Stati mediorientali usciti dalla disgregazione dell’impero Ottomano e passati attraverso il sistema dei mandati (Libano, Siria, Iraq, Giordania…) si sono raggiunti risultati soddisfacenti, e le conseguenze di quel fallimento sono visibili fino ai giorni nostri.
Per oltre un ventennio, la Gran Bretagna ha navigato più o meno a vista tra il crescente disagio della componente araba, esploso in rivolte sanguinose represse con i metodi spicci del colonialismo britannico, e la contradditoria ma continua e partecipata costruzione, da parte degli immigrati, di uno stato-nello-stato ebraico sui territori da lei amministrati.
Una soluzione frettolosa e pragmatica
Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, l’importanza strategica del Medio Oriente cominciò a crescere. L’appoggio delle élite arabe era diventato oggetto di contesa tra l’alleanza anglo-americana, i nazisti e i sovietici. Ciò contribuì a rendere sempre più ingarbugliato il dibattito sul futuro assetto della Palestina, che veniva a dipendere da una complessa rete di accordi e strategia in gran parte decise altrove: Londra, Washington, Berlino, Mosca, Damasco.
Con la fine del conflitto mondiale e la subitanea perdita del proprio impero globale, tra il 1947 e il 1948 la Gran Bretagna decide di smobilitare dalla Palestina, lasciando le due fazioni sole a confrontarsi. Il vantaggio politico, economico, militare della componente ebraica era evidente, e ciò ha favorito la soluzione dei due Stati.
L’illusione araba di far pesare la propria maggiore popolazione e la più diffusa distribuzione territoriale dei propri insediamenti come fattori determinanti nella definizione del futuro politico del paese svanì di fronte all’obiettivo della comunità internazionale di dare alla questione una soluzione rapida e “pragmatica”. Del resto, negli stessi anni la Gran Bretagna e la comunità internazionale gestivano, con modalità analoghe e su scala infinitamente maggiore, la partizione di India e Pakistan e gli enormi spostamenti più o meno volontari di popolazione ad essa associati, per non parlare dei massicci spostamenti che caratterizzavano in quella temperie l’Europa, l’Asia e il mondo sovietico.
L’opzione dei due Stati
Il caso della Palestina era, tra tutti, il più politicamente e moralmente delicato, alla luce della Shoah, ma non certo l’unico. All’interno dell’opzione dei due Stati, l’unica ormai sul tappeto, la Commissione ONU che nel 1947 definì il piano di spartizione territoriale, indubbiamente favorì, per certi versi, la componente ebraica, a cui attribuì il 55% del territorio, a fronte di una popolazione di poco più di un terzo degli abitanti complessivi della Palestina e nonostante gli ebrei potessero esibire documenti di proprietà su meno di un decimo delle terre (la gran parte di loro viveva nei centri urbani). Tra i due Stati, che avrebbero dovuto darsi un assetto democratico, doveva essere creata una unione economica, mentre il territorio di Gerusalemme e Betlemme era posto sotto un’autorità internazionale.
Gli esponenti ebraici giocarono assai bene le proprie carte su tavolo diplomatico, dimostrando di poter organizzare uno Stato moderno e di poter accogliere le centinaia di migliaia di ebrei che si dichiaravano pronti a lasciare l’Europa per la nuova patria (nonché i moltissimi altri che nel 1948-49 sarebbero stati più o meno forzosamente allontanati dai paesi arabi o del Nord Africa). La controparte palestinese invece, la cui élite politica era stata decimata dalle rivolte del 1935-39, non mostrò altrettanta compattezza né capacità di governare una situazione tanto complessa.
Il peso della Shoah
Sulla scelta dei due Stati e sulla linea di spartizione definita dall’ONU ha pesato indubbiamente l’esigenza di “risarcire” gli ebrei d’Europa vittime della Shoah e quindi, indirettamente, si può vedere nell’esito del voto delle Nazioni Unite un retaggio di eurocentrismo o, se si vuole, una forma di punizione inflitta alle élite arabe che avevano simpatizzato con il Nazismo (sia pure per lo più in chiave anti-coloniale). In effetti, il sostegno a Israele è venuto dagli USA, ma anche dall’URSS.
La spartizione territoriale – a parte la sua artificiosità e le sue contraddizioni (prevedeva infatti un alto numero di arabi nella parte ebraica) – soddisfaceva la strategia sionista, che vedeva premiata la propria domanda di legittimazione come soggetto statuale. Il piano era invece per principio inaccettabile per i palestinesi, fermi su posizioni massimaliste circa il loro diritto ad ottenere prima o poi un proprio Stato e esercitare piena sovranità sulle terre da loro sempre abitate.
La posizione della leadership palestinese
La leadership araba palestinese non ha però saputo presentare alcuna alternativa o soluzione di compromesso. La Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale dell’ONU non è vincolante: essa in effetti chiedeva agli abitanti di Palestina di mettere in atto il piano di divisione o, in alternativa, invitava il Consiglio di Sicurezza a prendere misure vincolanti per imporlo alle parti. Nessuno dei due percorsi è stato intrapreso e invece, a partire dai giorni successivi alla votazione della Risoluzione, sono iniziati gli scontri e gli atti terroristici.
Quando, allo scadere del mandato britannico, Israele dichiarò la propria indipendenza, il 15 maggio 1948, lo fece sulla base del diritto di autodeterminazione dei popoli e potendo contare su un effettivo controllo di una parte consistente del territorio attribuitole dalla Risoluzione 181, nonché su un apparato di governo efficiente e capace di interfacciarsi con il resto della comunità internazionale. USA e URSS si precipitarono a riconoscere il nuovo Stato. La leadership palestinese non procedette allo stesso modo, mantenendo il suo radicale rifiuto della 181 e contando piuttosto sul sostegno degli Stati arabi vicini.
Due guerre difficili da inquadrare
Gli storici si dividono sull’inquadramento della guerra civile del 1947-48 e sulla guerra arabo-israeliana del 1948-49. Per la storiografia israeliana “ufficiale”, è stata una guerra di indipendenza che riscattava gli ebrei dalla passività manifestata per decenni di fronte alle persecuzioni e allo sterminio.
La storiografia più recente e più critica (ma non certo maggioritaria) vede nel conflitto con palestinesi e Stati arabi la realizzazione di un’agenda politica precisa, condivisa dai vertici dell’agenzia ebraica in Palestina, che aveva avuto fin dall’inizio al centro dei propri obiettivi la rimozione forzata della popolazione araba.
La guerra non era stata, quindi, una lotta per la nascita e la sopravvivenza di Israele, ma un’operazione di “pulizia etnica” e di espropriazione condotta contro la maggioranza palestinese, in un conflitto che in nessun momento ha rischiato di sfociare in un nuovo olocausto ebraico.
Nella prima fase, infatti, la debole leadership palestinese non è stata aiutata dai paesi della Lega Araba, che si sono limitati a una reazione retorica senza rischiare operazioni sul terreno. Successivamente, quando Siria, Iraq, Giordania, Libano e Egitto lanciarono un attacco contro Israele, giustificato in modo non convincente come operazione di sostegno ai Palestinesi o di “difesa preventiva”, si è trattato di una guerra condotta senza una pianificazione e una strategia seria, né a livello politico (ciascun governo aspirava ad annettersi porzioni del territorio palestinese), né a livello militare (scarsa preparazione, coordinamento inesistente, nessun allineamento con i combattenti palestinesi).
La vittoria militare di Israele è avvenuta però in gran parte alle spese della popolazione interna palestinese. Settecentomila palestinesi hanno dovuto lasciare le loro terre e i loro villaggi. Una condizione di oggettiva minorità giuridica ha segnato quelli che hanno potuto restare. Un regime di emergenza permanente, ispirato a una nozione molto particolare di “sicurezza”, ha caratterizzato da allora la vita sociale e civile nel paese.
La debolezza politica di palestinesi e dei Paesi arabi
La Risoluzione 194/1948 dell’Assemblea Generale dell’ONU parla di un diritto dei rifugiati palestinesi a ritornare e a ottenere restituzioni. Ma anche in questo caso, sono necessari negoziati che nessuna delle parti, per ragioni politiche più o meno giuridicamente solide, ha mai voluto avviare.
Un punto cruciale è rappresentato dal fatto che nemmeno dopo la Nakba (Catastrofe) del 1947-48, i palestinesi sono stati in grado di articolare in modo appropriato il proprio diritto di autodeterminazione, la loro causa essendo variamente strumentalizzata dai vari paesi arabi vicini.
Il “secondo Stato” previsto dalla Risoluzione 181 non ha mai visto la luce, poiché le aree che lo avrebbero dovuto costituire – la West Bank (Giudea e Samaria), il nord della Galilea (Gaza) sono state acquisite, dopo il 1948, rispettivamente da Giordania, Siria e Egitto.
Una Commissione di conciliazione creata dall’ONU per affrontare le questioni urgenti create dalla guerra (ritorno dei rifugiati, restituzione dei beni) fu boicottata dagli Stati arabi che non intendevano con la loro partecipazione al negoziato riconoscere implicitamente il nuovo Stato.
Negoziati separati furono condotti per definire le linee di armistizio tra Israele e Egitto, Libano, Siria e Giordania, ma i confini così tracciati non sono mai stati accettati come definitivi, e del resto nel 1967 Israele li ha abbondantemente scavalcati con la guerra dei 6 giorni.
Israele potenza occupante
La Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU 242/1967 chiaramente afferma che, a partire da tale operazione, Israele è potenza occupante in quelle aree e che non può essere accettata nessuna annessione delle stesse allo Stato israeliano (di qui, l’illegalità della politica di moltiplicare insediamenti di coloni israeliani nei territori occupati palestinesi).
Le vicende che hanno portato alla nascita dell’OLP e ai tentativi di istituire un’Autorità palestinese sui territori occupati in vista di formare uno Stato palestinese sono fuori della portata di questo contributo. È chiaro, comunque, che le istanze sorte nel 1947 con la Risoluzione 181 sono ancora sul terreno e, dopo 76 anni, ancora attendono un’applicazione ragionevole da parte dei soggetti implicati.
Periodicamente, la questione riemerge, di volta in volta come un incubo (per chi propugna il “Grande Israele” o lotta per la distruzione dell’”entità sionista”) o come un sogno per cui impegnarsi, in vista di una convivenza pacifica o di una progressiva formazione di uno o più Stati democratici, pluralisti, pienamente laici e pacifici.
Due nazionalismi “gemelli”
Nel corso del ‘900 si sono creati in Palestina due nazionalismi “gemelli”, uno nato in contrapposizione all’altro: quello sionista – che è poi diventato israeliano, e quello arabo-palestinese, alimentato dal Nakba del 1948.
Entrambi i nazionalismi sono stati in qualche modo sostenuti dal contesto coloniale e si sono imbevuti delle ideologie del Novecento europeo, che esaltavano le epopee di “esploratori” e “pionieri” che negli Stati Uniti, in Sudafrica, in Australia o in estremo oriente si appropriavano di territori abitati da “indigeni” non civilizzati e banalizzavano operazioni di “biopolitica” che noi oggi riconosciamo come genocidi o pulizie etniche in nome di convinzioni razziste, ideologie totalitarie o per il “progresso” dell’economia e dell’industria.
Oggi, a distanza di oltre un secolo da quelle prime emergenze, le tossine di questi nazionalismi sono ancora in circolazione e anzi conoscono un ritorno di popolarità in gran parte del pianeta. La riesplosione del conflitto israelo-palestinese registra, come un sismografo sensibilissimo, questo nuovo stato delle cose. Ancora una volta, la pulsione a distruggere e a ricacciare in mare il proprio gemello malvagio torna a inquinare la società e la politica, non solo in Palestina e Israele.
Riandare alla storia di 75 anni fa non aiuta a evitare gli errori che continuiamo a fare, ma dovrebbe almeno servire a sentirci tutti impegnati a riconoscerli e a porvi rimedio.
Paolo De Stefani
Docente di Diritto internazionale all’Università di Padova
Nota – – – – – –
Rielaborazione della relazione “Israele-Palestina. Il quadro storico del conflitto” tenuta ad un incontro promosso da “Una strada” e da “Esodo” con altre associazioni (Venezia,11 novembre 2023). Il testo è stato pubblicato sul n. 4/2023 della rivista “Esodo”, che aderisce alla Rete dei Viandanti.
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[Pubblicato il 1.5.2024]
[L’immagine che correda l’articolo è ripresa dal sito: httpswww.mosaico-cem.it]