LA PASTORALE:
UNA TELA DI PENELOPE
Armando Cattaneo
“Ecclesia semper reformanda”, siamo tutti d’accordo.
“Papa Francesco non intende riformare la fede, ma i fedeli”! Già qui chi lo denigra non è d’accordo, ma l’affermazione è di mons. Georg Gaenswein e dunque al disopra di ogni sospetto. Ancora papa Francesco: “Non dobbiamo fare un’altra Chiesa, ma dobbiamo fare una Chiesa diversa” (Firenze, 2015).
Riforma, uscire al largo, Chiesa diversa non rintanata, pastorale innovativa e creativa… eppure Carlo Maria Martini trovava la Chiesa “indietro di 200 anni”. Come mai?
Una risposta c’è: Con i fedeli si è sempre punto e accapo. Questo lo dico dopo che coi fedeli ho vissuto tutti i giorni dei miei quasi 50 anni da prete.
La pastorale, dal Vaticano II fino a oggi, è esattamente come la tela di Penelope: si fa e si disfa.
La grande frenata del post-concilio
Dopo la grande spinta del Concilio ci fu la grande frenata del post-concilio. Agli eccessi di libertà liturgica son seguiti gli eccessi di rigorismo liturgico. All’interesse sul mondo è seguito il ritorno alla diffidenza.
Papa Giovanni Paolo II, santo (quasi) subito, attirò sulla Chiesa gli sguardi del mondo intero ma chiuse alla ricerca teologica e polarizzò la pastorale giovanile globale, con buona pace del principio di sussidiarietà.
Ratzinger stesso cambiò vistosamente ruolo e da attaccante puro nei suoi anni conciliari, elegante, alla Van Basten, divenne nei suoi anni vaticani un difensore duro, alla Burgnich, neanche alla Facchetti o alla Maldini.
Quantitativamente, ad ogni periodo di slancio e di apertura, breve e definito, è seguito un periodo di frenata a tempo indeterminato.
Non sto offrendo un capitolo di storia della Chiesa contemporanea, non è il mio mestiere, sto leggendo quanto tutti abbiamo vissuto e viviamo in prima persona sul piano della Chiesa universale.
Molte inversioni a U
Ma l’orizzonte quotidiano dei fedeli è segnato dall’ambito locale, cioè la parrocchia. Davanti ai loro occhi il tessere e lo sciogliere la tela di Penelope, vorticoso e periodico, è incomprensibile e, per chi di loro vi si gioca, è scandaloso.
Ogni cambio di parroco, persino di catechista e di direttore del coro, porta frequentemente con sé un’insensata inversione di linea pastorale.
Il criterio della continuità di linea pastorale, nel senso di un cammino coerente di Riforma evangelica in modo che non risulti a chi guarda dalla giusta distanza un percorso segnato da continue “inversioni a U”, non risulta essere all’attenzione di nessuno nella struttura ecclesiale: non all’attenzione della Congregazione Vaticana dei vescovi nel momento di provvedere a una nuova nomina, non dei vescovi nella scelta e successione dei parroci, non dei parroci nella scelta dei corresponsabili in parrocchia. Semplicemente questo criterio non esiste.
Sono stato “Ordinario di luogo” nella diocesi di Milano e devo testimoniare che solo le assemblee di laici sollevavano il tema della necessaria continuità o dell’eventuale discontinuità nella successione dei pastori. Ai fedeli laici il tema interessa e molto! La Chiesa è eterna ma per ogni fedele la vita è una sola e non si possono permettere il lusso di un cammino di fede fatto di ripetuti slanci e rientri. Per la loro vita cristiana come per la crescita cristiana dei loro figli e nipoti il parroco conta più del papa!
Lettere pastorali a casaccio
Nella Chiesa di questi decenni ci si preoccupa giustamente di riforme “geografiche”: accorpamenti di diocesi e parrocchie nei Paesi di antico cristianesimo e creazione di nuove diocesi e parrocchie nei Paesi di giovane fede. Perché non si dedica almeno lo stesso impegno alle riforme “temporali”, nel senso di garantire coerenza pastorale nel tempo? Vince di gran lunga il “Si è sempre fatto così”.
Ad esempio: è tradizione che i buoni vescovi escano ogni anno con una loro lettera pastorale. Ebbene chi di loro si preoccupa di delineare attraverso questa forma, certo abituale anche se da gran tempo obsoleta, un percorso pluriennale, con tappe concatenate? E non sarebbe molto più saggio che ogni vescovo usi il suo munus magisteriale per tradurre sul proprio territorio quanto il papa viene offrendo urbi et orbi? Si otterrebbe almeno una continuità pastorale ai due più alti livelli ecclesiali: papa e vescovi.
Perché mai il povero papa Francesco deve vedersi costretto a lanciare “un anno dedicato alla Laudato Sì” e quell’altro anno dedicato alla Fratelli tutti? Non sarà perché si rende conto che i vescovi vanno ognuno per la sua strada anziché dare esempio di autentica comunione con lo sbocconcellare il pane comune e buono per tutti messo sulla tavola dal Vescovo di Roma? Che vi siano tra loro tanti supposti maestri e pochi reali testimoni e pastori? E cioè l’esatto contrario di quanto chiedeva già mezzo secolo fa il card. Montini?
Ogni anno ogni vescovo sembra proporre un tema “random”, per non dire a casaccio. La cosa è tanto più grave dal momento che papa Francesco ha adottato in modo sistematico lo strumento che chiamerei di “condivisione preventiva” che è il Sinodo dei Vescovi ed ha addirittura lanciato un Sinodo triennale per far esprimere tutte le componenti della Chiesa, per primi gli “ultimi”. Urgono percorsi organici, coerenti, continuativi, condivisi negli anni e dai vescovi intorno al papa e nel rispetto almeno dei passi appena compiuti.
Lo Spirito Santo
Ma torniamo a bomba: “Ecclesia semper reformanda” nella giusta direzione. Obiezione: se fosse proprio il prossimo papa a fare inversione a U, a metter mano alla tela di Penelope?
Non ho questa paura e spiego perché:
C’è una garanzia di calcolo umano ed è che questo papa, come tutti i suoi predecessori, ha plasmato il collegio cardinalizio in modo che, col prossimo conclave, si possa sperare in una nuova tappa dello stesso cammino. Certo questa garanzia è ben fragile, conta per l’un per cento, perché la storia insegna…
C’è il motivo teologico e di fede che conta per l’altro 99 per cento: ed è che lo Spirito Santo è esperto di conclavi e sceglie il meglio disponibile. Siamo al 100%. Stop? Fino a ieri bastava. Oggi direi di no.
Armando Cattaneo
Già parroco della Comunità pastorale di Saronno e già vicario episcopale della Diocesi di Milano
[pubblicato il 7 aprile 2022]
[L’immagine che correda l’articolo è ripresa dal sito: www.facebook.com_.jpg ]
Ha ragionissima don Cattaneo.
Cosa devo dire io che mi ritrovo in parrocchia un nuovo prete polacco che a differenza del precedente, ben inserito nella tradizione del cattolicesimo popolare toscano delle settimane sociali e delle casse rurali nelle parrocchie all inizio del 900,( come nel caso) e aveva poi impostato collaborazioni con i padri comboniani, ha avuto il coraggio di dire che i mali della chiesa dipendono dal concilio e che bisogna aiutare gli ucraini che scappano dalla guerra e non sono come altri che vengono in Italia su barconi a spacciare droga.
Allora cosa bisogna fare? Mettersi a piangere sicuramente ma anche sperare nello Spirito santo e trovare una “giocata” alla Rivera o alla Suarez che liberi qualcuno e lo metta in condizione di fare gol e neanche troppo tardi perché il tempo sta per finire.
Sono prete da 48 anni, ma sono stato poco in parrocchia, solo ho cercato di servire nella scuola cattolica. Condivido pienamente ciò che ha scritto don Cattaneo. Ma mi domando spesso: “come faccio a vivere una pastorale diversa, più attinente alla Chiesa che tante persone desiderano oggi? Come far si che sia una pastorale evangelica? mi piacerebbe molto. Ad esempio come trasmettere la gioia della Pasqua di Gesù oggi?” Se qualcuno di voi soprattutto laici ha idee in merito può suggerirle, mi fate un estremo favore. Scrivetemi pure a val.cocco@tiscali.it
Nonostante il concilio Vaticano II,la chiesa cattolica è rimasta (a parte l’estetica),una monarchia preconciliare… … ancora oggi , esiste la chiesa , docente (clero),e la chiesa discente (laici), certo il pontificato di Papa Francesco è più elastico dei suoi predecessori,ma concretamente la strada è ancora lunga…
Don Cattaneo ha pienamente ragione, è triste ma è così. L’attenzione della gerarchia cattolica è tutta al clero, tutta interna. Ad es. a Roma un parroco può restare in una parrocchia fino a nove anni, poi (o prima) la rotazione, perché i preti devono condividere esperienze e conoscenze della diocesi. Non è un male, ma i fedeli? I lavori intrapresi nelle parrocchie?
Uno dei problemi di fondo è la struttura monarchica della Chiesa, non messa in discussione in pratica nemmeno nel dopo Concilio. Il vescovo è sovrano assoluto della diocesi e il parroco lo è nella parrocchia, sicuro di avere il potere di disfare ciò con cui non è d’accordo. Non piace quella metodologia della catechesi (ad es. quella nota internazionalmente del Buon Pastore)? Si smantella, senza rispetto per persone che magari vi lavorano da anni, hanno seguito corsi e preparato materiale didattico.
È solo un esempio, che ho appreso di persona.
Pere fortuna avviene a volte il contrario, ma questo sta alla buona volontà, al senso comunitario e all’intelligenza del nuovo parroco. E non sono molti i sacerdoti così; dopo anni di affossamento del Concilio, i poveri preti sono formati nei seminari a devozionalismo e ritualismo.
Per un povero vecchio laico convertito dal Concilio a 16 anni è triste, come scrivevo in inizio.
E sono sempre loro, i parroci i vescovi il papa, la gerarchia. le decisioni sono sempre le loro, ma come fanno i cattolici ha sopportare tutto questo? E i laici che ruolo hanno?