LE COPPIE INTERCONFESSIONALI E LA POSSIBILITÀ DELL’INTERCOMUNIONE
Giovanni Cereti
Una riflessione sull’intercomunione, e cioè sulla possibilità di partecipare insieme, cristiani di diverse chiese, alla celebrazione dell’Eucaristia e al banchetto eucaristico, deve partire da una riflessione sulla Chiesa, essendo la liturgia in generale e la comunione eucaristica in particolare culmine e fonte della vita e dell’unità della Chiesa (Sacrosanctum Concilium 10).
Uniti per il battesimo e la fede
Ora il concilio Vaticano II ha superato quel concetto ristretto di Chiesa che era proprio dell’ecclesiologia cattolica preconciliare, e che identificava la Chiesa di Cristo con la sola Chiesa cattolica. Il concilio ha affermato a più riprese (Lumen Gentium 8 e Dignitatis Humanae 1) che la Chiesa di Cristo “sussiste nella Chiesa cattolica”, il che significa che è presente ma non si esaurisce in essa.
Questo vale anzitutto per le chiese ortodosse, il polmone orientale della Chiesa come amava ripetere Giovanni Paolo II, per le quali si afferma che “mediante la celebrazione dell’Eucaristia del Signore in queste singole chiese, la Chiesa di Cristo è alimentata e cresce” (Unitatis Redintegratio 15).
Se per le chiese non cattoliche d’occidente non troviamo espressioni corrispondenti, si può ricordare come in UR 3 si affermi che “coloro che credono in Cristo e hanno ricevuto debitamente il battesimo sono costituiti in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica… Dunque, per il battesimo e la fede i membri delle diverse comunità cristiane fanno parte dell’unico Corpo di Cristo, e cioè dell’unica Chiesa.
Se tutti i battezzati fanno parte dell’unica Chiesa (e non vogliamo qui domandarci se essa non accoglie anche non battezzati che vivono una vita retta e di profonda comunione con Dio), tutto ciò che può far crescere la comunione fra i cristiani anche sul piano visibile dovrebbe essere favorito.
Perché l’esclusione dalla tavola eucaristica
Secondo la convinzione della comunità cristiana primitiva, i neobattezzati non avrebbero dovuto peccare. E tuttavia anch’essa si trovò di fronte al problema di membri della comunità che si rendevano colpevoli di peccati gravi e notori, per cui venne deciso di escluderli dall\’Eucaristia, ispirandosi proprio a quanto fatto da Paolo in 1Cor 5, secondo l’interpretazione che di questo passo veniva data nella Chiesa dell’epoca. E tuttavia coloro che erano stati esclusi avrebbero potuto in seguito essere riconciliati con la Chiesa e riammessi alla tavola eucaristica, e questo avvenne da quando la comunità cristiana cominciò a prendere coscienza del potere ricevuto da Cristo di rimettere i peccati e a parlare della possibilità di una “seconda tavola di salvezza” dopo il battesimo.
Questa “seconda tavola di salvezza” venne gradatamente precisata nelle forme della penitenza pubblica. I responsabili dei peccati più gravi entravano nella condizione di penitenti e restavano esclusi dall\’Eucaristia, ma dopo un anno o forse più potevano essere riammessi nella comunità e di conseguenza prendere parte all’Eucaristia.
Che ai fini della penitenza pubblica si prendessero in considerazione soprattutto peccati gravissimi (l’apostasia nella persecuzione e il vivere in un secondo matrimonio, che ritengo si debba interpretare come secondo matrimonio dopo il divorzio e non dopo la morte del coniuge come tanti affermano ancora) è dimostrato dal canone 8 del concilio di Nicea del 325, relativo alla riammissione nella grande chiesa degli eretici novaziani.
Questo canone dimostra anche che l’esclusione dall’Eucaristia, che era stata introdotta per i peccati più gravi, si era estesa a coloro che non accettavano gli insegnamenti della grande Chiesa ed erano considerati “eretici” o appartenenti a una Chiesa diversa.
Il cambiamento della prassi penitenziale
Con le migrazioni dei popoli e la disgregazione della vita cittadina, la prassi penitenziale venne modificandosi, con l’introduzione della penitenza privata, tariffata secondo le indicazioni dei libri penitenziali. Tuttavia per quanto riguarda l’esclusione dall’Eucaristia continuò la prassi di non accettare alla tavola eucaristica coloro che venivano considerati separati dalla grande Chiesa per ragioni di peccato o di non accettazione dei Concili.
Una situazione che purtroppo si radicalizzò dopo gli eventi del sedicesimo secolo e le scomuniche reciproche non solo fra cattolici e protestanti ma anche fra cristiani delle diverse confessioni evangeliche, e che comunque riguardò soprattutto i rapporti fra i cristiani membri delle chiese occidentali, perché sembra un dato storico il fatto che una certa intercomunione fra cattolici e ortodossi sia continuata a livello popolare sino agli inizi del secolo ventesimo.
Le novità del movimento ecumenico e del Vaticano II
Tutto ha cominciato a cambiare con la nascita del movimento ecumenico e per la Chiesa cattolica con il concilio Vaticano II. La Chiesa cattolica, riconoscendo pienamente come Chiese le Chiese orientali, decise (con Orientalium Ecclesiarum 27-29) che gli ortodossi potessero partecipare all\’eucaristia nella Chiesa cattolica, e i cattolici in quella ortodossa, a condizione che ci fosse l\’accordo delle gerarchie ortodosse, che tuttavia non venne.
Quanto ai protestanti, aprirono la loro mensa eucaristica agli altri evangelici, soprattutto grazie alla Concordia di Leuenberg (1973). E tuttavia, da parte cattolica, si è stati molto più riservati nell’aprirsi all’intercomunione o anche soltanto all’ospitalità eucaristica nei rapporti con gli evangelici di quanto lo si era stati con gli ortodossi.
Gli evangelici potrebbero partecipare all\’eucaristia cattolica alle stesse condizioni dei cattolici (fede nella presenza reale e stato di grazia o di comunione con il Signore). Ma della partecipazione dei cattolici alla Santa Cena non si parla, perché il Vaticano II aveva rilevato un ‘defectus ordinis’ (UR 22) che agli occhi della Chiesa cattolica rende invalida l’eucaristia degli evangelici.
Da parte evangelica, la convinzione di celebrare un\’eucaristia pienamente valida fonda il loro insistente invito ai cattolici a parteciparvi. Si può comunque ricordare che alcuni teologi cattolici ritengono che il ‘difetto’ di cui parla UR 22 non arriva a inficiare il valore dell\’operato di quanti sono stati ordinati.
Il caso delle coppie interconfessionali
Un problema particolare è quello delle coppie interconfessionali, formate da due cristiani battezzati in chiese diverse, e che in quanto tali chiamati anch’essi ad essere “piccola Chiesa”, una Chiesa domestica che viene alimentata proprio dalla partecipazione comune al culto o all’eucaristia domenicale, partecipazione che trova la sua pienezza nell’accostarsi insieme alla comunione eucaristica.
Entrando in una comunione così stretta e profonda con il proprio coniuge, i membri di una coppia interconfessionale imparano ad amare anche la Chiesa cui appartiene il coniuge e a vivere in una certa comunione con essa, formando i figli all’amore verso le due chiese cui appartengono i genitori.
Il problema posto dal recente documento dell’episcopato tedesco proprio a proposito della partecipazione all’Eucaristia delle coppie interconfessionali (e contro il quale alcuni vescovi hanno fatto ricorso a Roma) sembra essere stato risolto con la decisione di alcuni vescovi (in linea con i principi della sinodalità) di farlo applicare nelle loro diocesi. Il documento tuttavia parla soltanto della possibilità che un non cattolico partecipi all’Eucaristia celebrata nella chiesa cattolica, ma non fa cenno alla possibilità inversa.
L’esigenza di un discernimento personale
Ricordando ancora una volta l’importanza di osservare con amore in linea di principio le raccomandazioni che provengono dalle autorità legittime delle nostre diverse Chiese, sembra giusto affermare anche che, in questo come in ogni altro caso, il giudizio di coscienza, il discernimento personale, compiuto da ogni singolo cristiano in ordine al comportamento da tenere nel concreto, debba essere seguito.
Se siamo davvero un\’unica Chiesa di Cristo alla quale tutti partecipiamo, come dice papa Francesco, con espressioni che sembrano corrispondere a questo convincimento, “camminiamo insieme, preghiamo insieme, serviamo insieme i fratelli”, in modo che “l’unione gradatamente verrà”.
Queste indicazioni valgono anche per il nostro caso. Il decreto sull’ecumenismo insegnava che la comunicazione nelle cose sacre (in questo caso, la partecipazione all’Eucaristia nella Chiesa del coniuge) dipende da due principi: “dalla manifestazione dell’unità della chiesa e dalla partecipazione ai mezzi della grazia. La manifestazione dell’unità per lo più vieta la comunicazione, la necessità di partecipare alla grazia talvolta la raccomanda” (UR 8).
Verso una piena intercomunione
Se è vero quanto detto sopra, dobbiamo riconoscere che entrambi i principi spingono verso una piena intercomunione, capace di farci crescere nell’unità.
Spinge in questo senso anche la carità e il rispetto che dobbiamo esercitare nei confronti di tutti i cristiani e delle loro Chiese, che non possiamo giudicare con la sufficienza del fariseo della parabola (Lc 18, 9-14).
Spinge nella stessa direzione l’affermazione evangelica per cui “dove due o tre sono riuniti nel nome di Gesù” egli è presente in mezzo a loro (Mt 18,20).
Spinge, infine, all’intercomunione anche il frutto del ministero dei pastori delle diverse Chiese evangeliche, che hanno saputo guidare nei secoli le loro comunità con la predicazione e i sacramenti consentendo ad esse di perseverare nella fede e di portare frutti di servizio e di carità.
E a questo punto oso ancora aggiungere (forse anche solo per convincere i cattolici più rigidamente legati alla tradizione scolastica), che nella Chiesa cattolica, quando un ministro fosse stato invalidamente ordinato, il fatto che la comunità lo riconosca come esercitante validamente il suo ministero fa sì che “supplet Spiritus Sanctus in Ecclesia” per cui tutti i suoi atti portano egualmente frutti di grazia.
Ritengo che ciò valga anche per i ministri delle Chiese non cattoliche che i loro fedeli considerano come ministri legittimamente ordinati, per cui non oserei misconoscere il valore dell\’eucaristia da loro presieduta e della conseguente presenza del Signore.
Una “trasgressione forte”
Forse qualcuno attende che la prassi dell’intercomunione si diffonda fra il popolo cristiano, per poterla poi riconoscere ufficialmente, come è accaduto se non ricordo male fra la chiesa siriaca ortodossa e la chiesa siriaca cattolica, che riconoscendo che i loro fedeli (forse trasgredendo le indicazioni delle rispettive gerarchie) praticavano correntemente l’intercomunione, hanno dichiarato che tale prassi poteva essere ammessa ufficialmente dall’autorità delle due chiese. Tutto ciò significa che si può legittimamente distinguere fra una “trasgressione debole” (compiuta con la coscienza di venir meno a un dovere) e una “trasgressione forte”, compiuta con la coscienza di poter contribuire a dare vita a una situazione nuova, come è stato nel caso di coloro che per primi si sono opposti alla schiavitù, o all’apartheid, o alla pena di morte.
Una ‘trasgressione forte’ (intesa come una forma di obbedienza al Signore in vista del cambiamento della disciplina, in conformità alla sua richiesta: “e perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?” – Lc 12,57) può essere compiuta sulla base di un giudizio di coscienza (e pagando di persona) al fine di fare evolvere la disciplina ecclesiastica nel senso di contribuire più efficacemente all’insegnamento evangelico che ci chiede di ristabilire la piena comunione fra i cristiani “affinché il mondo creda” (Gv 17,21).
Giovanni Cereti
Presbitero, dottore in Giurisprudenza e in Teologia, docente di Teologia ecumenica e di dialogo interreligioso in diverse Facoltà ecclesiastiche. È consulente del Segretariato per le attività ecumeniche (SAE).
Animatore della Fraternità degli Anawim, aderente alla Rete dei Viandanti
Ottimo l’articolo di don Giovanni Cereti. Completamente condivisibile.
L’urgenza del momento richiede di seguire l’esempio dei cristiani siriaci, con un’ampia “trasgressione forte” per camminare più speditamente verso la piena comunione tra tutti i cristiani, “ut unum sint” e il mondo creda. E insieme per essere segno e possibilità nuova di vivere una diversità riconciliata, anche nei risvolti sociali, dove a fratelli e sorelle immigrati è dovuto un riconoscimento concreto di umanità per il loro essere creati come noi a “immagine e somiglianza” di Dio.