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L’ERA COSTANTINIANA,
MAI FINITA E GIUNTA FINO A NOI

Gianmaria Zamagni

Una questione che è stata posta in questo anno 2013, centenario dell’Editto di Milano, mi ha sollecitato e fatto molto riflettere: «Fine dell’era costantiniana: è sufficiente averla dichiarata?» [1]. Credo sarebbe troppo facile replicare a questa domanda con una risposta immediata. Risposta che sarebbe, se data di getto, negativa. Tuttavia la domanda è solo apparentemente banale. E credo occorra anzitutto capire esattamente di cosa si parla quando si parla di “fine dell’era costantiniana”. Non si tratta infatti di narrare la storia di un imperatore romano del quarto secolo, né mostrare l’effetto che le sue decisioni politiche (anche l’Editto “di tolleranza” di Milano) hanno avuto sul più lungo termine. A ben guardare, né l’una né l’altra cosa ci riguardano più da vicino.

Una “simbiosi” mai finita
Un altro aspetto è invece decisivo: quello “ideale”, quello per cui un imperatore e la struttura di governo cui ha per primo dato origine si sono come ipostatizzati in un intreccio di rimandi che è durato fino ai nostri giorni. Il rapporto di «simbiosi» fra teologia e potere istituzionale inaugurato con Costantino s’è concretizzato di volta in volta in nuove forme. Ciò è avvenuto attraverso strumentalizzazioni, anacronismi, forzature e talora vere e proprie falsificazioni storiche. Questi errori sono gli obiettivi della critica rivolta all’ideale costantiniano. Lo stesso termine di “critica” viene spesso percepito come sinonimo del termine “polemica”. Tuttavia qui il termine greco (krínō) deve indicare piuttosto la separazione, la distinzione che permette il formarsi del giudizio, termine che in questo senso è anche correlato a quello di “discernimento”.

Poco più di cinquant’anni fa, alla vigilia dell’apertura del Vaticano II, fu un teologo dell’ordine domenicano, p. Marie-Dominique Chenu, in una giornata di studi, a chiedersi come fosse da comprendere il concilio in relazione alle donne e agli uomini del proprio tempo, alla loro storia e al loro mondo. Chenu sceglieva la formula Fin de l’ère constantinienne per contestualizzare l’evento conciliare nella sua epoca, convinto che questo atteggiamento dava alla congiuntura «le dimensioni di grande fatto storico». Cosa intendeva dire esattamente con questo? Se si guarda, nella sua interna coerenza, tutta la sua opera di storico della teologia tomista e di saggista osservatore della Chiesa nella realtà contemporanea, si può comprendere senza timore di equivoci ciò che egli intendesse.

La critica all’ideale costantiniano
Sant’Alberto Magno e san Tommaso, e poi domenicani e francescani, avevano saputo, all’irrompere del nuovo metodo scientifico aristotelico, adottarlo criticamente anche per la teologia. Così doveva comportarsi sempre il teologo autentico di fronte alle rivoluzioni scientifiche e sociali. Si tratta ogni volta di saper discernere, in esse, i luoghi spirituali, di sapervi leggere i segni dei tempi, poiché «Per la legge stessa dell’economia della rivelazione Dio si manifesta attraverso e nella storia, l’eterno si incarna nel tempo in cui soltanto lo può raggiungere lo spirito dell’uomo».

Quel concilio ecumenico, in questo senso, era un evento del secondo dopoguerra. Nella teologia della prima metà del Novecento, che esso coronava, s’era fatta strada una genealogia di studi (e di grandi teologi e storici) che avevano guardato all’ideale costantiniano in maniera assai critica: da Erik Peterson (1890-1960) a Ernesto Buonaiuti (1881-1946), da Jacques Maritain (1882-1973) a Friedrich Heer (1916-1983) e, appunto, Marie-Dominique Chenu (1885-1990), per non menzionare che alcuni grandi nomi da quattro diversi paesi europei. Questi autori hanno in comune il rifiuto dell’acquiescenza e della conciliazione a poteri statali che mostravano il loro volto più spietato e letteralmente idolatra. Per tutti costoro era chiaro un elemento centrale: la storia del XX secolo aveva mostrato l’ideale costantiniano nel suo potenziale più devastante, ogni qualvolta l’elaborazione teologica si era messa docilmente al servizio di sovrani caratterizzati da un’ambizione totalitaria, quando la croce cristiana si era così trovata, nel vecchio continente, strettamente associata alle altre croci del secolo, quella uncinata, anzitutto, ma non solo: l’ideale costantiniano si era ripresentato, ancora, nelle guerre “giuste” di Benito Mussolini in Etiopia e di Francisco Franco in Spagna.

Tolleranza e persecuzioni
Il XVII centenario dell’Editto di Milano, in questo 2013 denso di commemorazioni (e di nuovi eventi) per la chiesa, nel cinquantesimo del concilio e dell’enciclica di Giovanni XXIII Pacem in terris, non dovrebbe essere celebrato trionfalmente e così acriticamente, in spregio alla storia, alla memoria del Novecento e dello stesso magistero conciliare, ma soprattutto senza fare una lettura che sappia discernere i segni dei tempi oggi. Alla storia, perché la “tolleranza” ai cristiani rappresentò presto per i non cristiani (a esempio Ebrei e Donatisti, tante “eresie” successive, poi con le crociate) oppressione, violenza e persecuzione. Sia detto per inciso, poi, che è semplicemente un anacronismo applicare al Tardoantico ad esempio un concetto di tolleranza che la nostra cultura deve, per il significato che le dà, all’illuminismo. In spregio alla memoria del Novecento perché, come s’è già detto, in quel secolo è apparsa brutalmente chiara l’alleanza e la simbiosi teologico-politica, eppure – già nel corso degli eventi in alcuni lucidi pensatori, ma poi eminentemente e autorevolmente nel concilio – la Chiesa ha saputo restare coscienza critica, e aggiornarsi, anche e soprattutto rispetto alla posizione da assumere nei confronti dei diversi governi, e nel salvaguardare quella libertà religiosa di cui è titolare la persona, «essere dotato di ragione e di volontà libera».

Il bisogno di una Chiesa disinteressata
Quanto alla lettura dei segni tempi oggi, più che mai le nostre società sembrano aver bisogno della parola di una Chiesa che sappia essere testimonianza sollecita eppur disinteressata, profetica e povera. Una gamma di problemi forse s’impone nel contesto sempre più multipolare di oggi: quella costituita dalle crescenti disuguaglianze e dell’erosione dei diritti, in un’ingiustizia sociale e ambientale sempre più insostenibile assieme a fenomeni di rinascenti razzismi, negazionismi e nazionalismi, a nuove forme di schiavitù, all’apparente “normalità” della guerra. Mi pare che anche gli eventi più recenti depongano in favore di una testimonianza umile, nella mite ma ferma consapevolezza delle proprie capacità. Ciò che la scelta di Benedetto XVI enfatizza è infatti il carattere di ministero dell’ufficio petrino, ciò che depone è un altro velo di quel carattere ieratico di cui taluni suoi predecessori hanno amato ammantarsi. L’oggetto della testimonianza, quello, rimane sempre lo stesso e quello più autentico: il vangelo solo, nel suo potenziale di liberazione dal peccato d’idolatria, dall’ipocrisia e dall’ingiustizia. Il tentativo di rifugiarsi nuovamente nel modello costantiniano andrebbe misurato all’interno di questo contesto globale. Ne risulterebbe evidente, credo, tutta l’obsolescenza.

Tornando dunque alla domanda iniziale: è sufficiente averla dichiarata, la fine di quell’era? Certamente no, non è sufficiente. Quella dichiarazione nasce però da un’analisi critica dei segni dei tempi, e attraverso quest’analisi la critica genera considerazioni ad alto potenziale performativo, considerazioni cioè cui si può rispondere solo mediante un’azione, una prassi conseguente. Così si porrebbe nuovamente al centro la predicazione del Regno a venire, di contro alla nostalgia triste di chi crede che la Chiesa abbia già vissuto, altrove in un idealizzato passato, il proprio compimento.

Gianmaria Zamagni
Ricercatore all’Università di Münster (Vestfalia/Germania)

[1] Il riferimento è al Forum n. 331 di Koinonia. Vedere http://www.koinonia-online.it/forum331base.htm

[pubblicato il 13 maggio 2013]

1 Commento su “L’ERA COSTANTINIANA,
MAI FINITA E GIUNTA FINO A NOI”

  1. La mia domanda è questa: quali fattori storici provocarono il rapido passaggio dalla “tolleranza” (313)del Cristianesimo, religione lecita alla pari delle altre,al connubio fra potere politico e religioso, che sfocerà in un Cristianesimo “religione ufficiale” dell’Impero romano (380)?
    E perché, dopo quasi duemila anni, Gianmaria Zamagni è costretto ancora a inveire su un’era costantiniana che non vuole passare?
    La categoria del “tradimento” non spiega un fenomeno così duraturo. Perché tante generazioni, in Europa,hanno dovuto vivere all’ombra di una politica sacralizzata? Non è stata solo la Chiesa, in altre parole, ad appoggiarsi al potere politico. E’ stato anche il potere politico ad appoggiarsi al sacro(e non solo nell’Occidente cristiano), per legittimarsi, per dare un qualche ordine a una realtà che appariva caotica.
    Proprio M.D.Chenu insegnò che l’esegesi biblica è solidale con la cultura del tempo che cambia. Prima di Tommaso (e della scoperta di Aristotele)l’esegesi non poteva essere che quella dei quattro significati medievali. Sarà il moderno metodo storico-critico a “superare” la scolastica,anzi a storicizzare, con Chenu, lo stesso Tommaso, che molti pretesero invece di assolutizzare.
    Può valere il ragionamento anche per i rapporti fra Stato e Chiesa? Sarà solo la cultura moderna dell’illuminismo a rendere gradualmente autonoma la politica dalla religione.
    La domanda allora diventa: perché la Chiesa, nelle svolte della modernità, un processo di autoaffermazione dell’uomo, si oppose ad esse, sia nell’esegesi che nella politica, invece che favorirle?
    La mia ipotesi di risposta è che la Chiesa disponeva di un’antropologia prevalentemente negativa. Solo se hai fiducia nell’uomo accetti la sua crescita autonoma, anzi contribuisci ad essa.
    Il Concilio Vaticano II ha avuto il grande merito di scoprire nella Bibbia, e nella storia, un filone di antropologia positiva. Non mi accontento oggi di una Chiesa che si libera dal connubio con i regimi politici, e critica le ingiustizie sociali e le guerre. La vorrei, per farsi perdonare i ritardi accumulati, capace di “educare alla politica” i credenti, come un impegno nobile nell’età della democrazia. Questo vorrebbe anche la Gaudium et spes.
    Per riuscire in quest’impresa occorre forse guardare alla storia passata non sotto la coltre di un’unica era costantiniana, indifferenziata e fallimentare, da Costantino a Carlo Magno, da Luigi XIV a Hitler, da Franco a Berlusconi. Cerchiamo anche le differenze, gli sforzi prima delle colpe. La storia di duemila anni non è solo di fallimenti. Si rivela come una lunga fase “intermedia” quella in cui l’umanità ha avuto bisogno del sacro in politica, ottenendo anche risultati parziali.
    E nella critica proponiamo obbiettivi parziali, per uscire dall’era costantiniana. Ad esempio, a scuola, in Italia, l’insegnamento di storia delle religioni, invece che dell’unica religione cattolica. E’ un obbiettivo che si rivolge a tutti, allo Stato e alle Chiese, ai credenti in Dio e ai credenti nell’uomo, ai cristiani, agli ebrei, ai musulmani.

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