Lettera di 63 teologi italiani (maggio 1989)
Contesto. Dopo la dichiarazione di Colonia da parte dei teologi di lingua tedesca, nel corso del 1989 appaiono documenti analoghi redatti e sottoscritti da teologi appartenenti a varie aree linguistiche e in cui è comune la preoccupazione per l’involuzione della vita ecclesiale. Anche un gruppo di teologi, di storici, e di filosofi italiani stende una lettera indirizzata ai cristiani di fronte al disagio per le spinte regressive che attraversano la chiesa cattolica.
I punti affrontati sono: il Vaticano II come riferimento dottrinale; lo stile di Cristo e quello della chiesa; la chiesa quale comunione di chiese; il ruolo del magistero. Di fronte ai segnali di involuzione (nomine di vescovi mirate alla modificazione degli equilibri interni delle singole conferenze episcopali, destituzione di personaggi scomodi, teologi insospettabili che vengono inquisiti dalla Congregazione della dottrina della fede, e soprattutto la scissione tra il livello della fede vissuta tra i cristiani comuni e le preoccupazioni che invece emergono nel linguaggio ufficiale della chiesa).
Giuseppe Ruggieri, uno dei primi firmatari del documento, afferma che la lettera tenta di risalire ad alcuni motivi più radicali del disagio, oltre la semplice denuncia e nella prospettiva del primato della comunione, di ciò che unisce.
Sottoscritta da 63 teologi e studiosi, la lettera, apparsa in “il Regno-Attualità” n. 10 del 15 maggio 1989, è anche, sempre secondo Ruggieri, “un debito nei confronti di quanti non hanno voluto o potuto sottoscriverla; e non già perché non la condividessero”.
TESTO
Lettera ai cristiani. Oggi nella Chiesa…
Questa lettera vorrebbe essere un invito ad una riflessione pacata tra fratelli nella fede, i quali vogliono vivere con coerenza la loro vocazione cristiana. Recentemente l’opinione pubblica è stata messa a rumore da alcune prese di posizione nelle quali si esprime disagio per determinati comportamenti dell’autorità centrale della Chiesa nell’ambito dell’insegnamento, in quello della disciplina, ed in quello istituzionale. Alcuni infatti, e non sono pochi, hanno l’impressione che la Chiesa cattolica sia percorsa da forti spinte regressive. In questo clima ci sembra doveroso proporre alcune considerazioni brevi ed essenziali. Esse si propongono di abbandonare il piano della polemica che, spesso, si fissa sugli aspetti più appariscenti. Il vero rischio invece è che molti non scorgano cosa sia veramente in gioco.
Il mondo sta attraversando una trasformazione radicale e veloce negli assetti politici, nel mutamento del costume, e nei riferimenti etici fondamentali. Anche la situazione dei credenti ne risulta modificata. È necessario l’impegno di tutti per affrontare creativamente i problemi che insorgono. Tanto più che quindi si impone che siano tenuti presenti alcuni riferimenti determinanti per le scelte che incombono sulle comunità ecclesiali e sui singoli cristiani.
1. In primo luogo si tratta di sapere se l’evento del Concilio Vaticano II debba costituire un effettivo punto di riferimento dottrinale nell’affrontare i problemi della missione e dell’evangelizzazione. Da parte di alcuni si tende di fatto a sminuire l’importanza di questo evento qualificandolo come “pastorale” e non dotato quindi della stessa autorità dottrinale degli altri concili ecumenici. A nostro avviso così non si intende proprio il significato di quella “svolta pastorale” che il concilio ha voluto introdurre nell’equilibrio globale della comprensione della fede ecclesiale. La stessa dottrina, in questa qualificazione pastorale, assume un peso ed un volto che sono più adeguati alla natura della verità cristiana. La connotazione pastorale infatti è intrinseca alla dimensione dottrinale del Cristianesimo. È essa infatti che rende possibile l’interpretazione fedele della verità dentro l’esistenza storica della comunità ecclesiale. E la verità cristiana è la verità che Dio ci ha consegnato per la nostra salvezza. È vero quindi che l’equilibrio dottrinale del Vaticano II differisce da quello di una certa tradizione teologica post-tridentina che a volte aveva segnato anche i pronunciamenti del magistero. Ma questo è avvenuto non per una minore precisione della dottrina stessa, ma per una penetrazione di essa più conforme alle esigenze della verità cristiana.
Insistere sul riferimento al Vaticano II non può certo stare a significare che esso debba essere staccato dall’insieme della tradizione della fede e ancor meno che esso possa essere ripetuto in maniera letterale. Anche nei suoi confronti, come nei confronti di tutta la tradizione, si impone una interpretazione corretta che ne colga il nucleo ispiratore. Ma ricorrere a passati equilibri dottrinali significa ignorare proprio questo nucleo. Ed è qui che oggi si dividono gli spiriti.
2. In particolare riteniamo che debba restare come ispirazione primaria della missione ecclesiale quella che è presente nella Costituzione Lumen Gentium, 8: “Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza…“. Ci sembra che invece si tenda a dimenticare come, non solo a livello individuale, ma nella sua strutturazione istituzionale, nei suoi rapporti con gli Stati, nello stile della sua predicazione, la Chiesa non debba farsi condizionare dalla logica mondana, ma dallo stile del Cristo, mite ed umile di cuore, povero, venuto per salvare la pecora perduta. La mentalità di privilegio, anche se tentazione e insidia costante, non può essere l’ispiratrice del cammino della Chiesa che vuole essere sacramento di unione con Dio e di unità tra i popoli.
Sia nell’annuncio al mondo che nel cammino che deve portare alla riunione delle chiese, è condizione fondamentale di obbedienza al Signore la conversione delle nostre comunità e della Chiesa tutta a questo stile del Cristo a cui richiamava il Vaticano II. Solo così del resto, le chiese, e tutti noi in esse, avremo occhi liberi e puri per poter cogliere tutta la grazia che Dio prepara ai popoli nel momento attuale della storia.
3. Un punto qualificante dell’ecclesiologia conciliare, anche se delicatissimo, è la concezione della Chiesa come comunione di chiese. Questo comporterà, non senza traumi ma inevitabilmente, un mutamento di quell’equilibrio istituzionale che nella chiesa latina è venuto solidificandosi soprattutto nel II millennio della sua storia. Si inserisce qui la discussione attuale sullo statuto delle conferenze episcopali e sulle nomine dei vescovi. Siamo consapevoli che non esistono soluzioni facili perché l’unità della fede e della “grande disciplina” divenga dono operante della pluralità della comunione. Però riteniamo che la Chiesa non possa rinunciare a priori, per timore dei problemi che ne seguiranno per la sua unità, alla varietà dei modi di intendere e di vivere la fede che lo Spirito suscita nelle diverse comunità e nella stessa guida pastorale dei vescovi.
La storia della Chiesa, del resto, conosce periodi forse ancora più caldi di quello attuale. Basti pensare agli stessi inizi della Chiesa, al conflitto tra Paolo e Giacomo, o ai tempi di Cipriano e di Papa Stefano, di Atanasio e di Basilio, di Cirillo e di Giovanni Crisostomo, per rendersi conto che i grandi conflitti nella vita della Chiesa sono stati superati solo lentamente e con sofferenze di tutti. Ma Questo vuol dire che dobbiamo cercare di imitare la magnanimità del Signore il quale “non ritarda…, come alcuni ritengono, ma sente in grande” (2Pt.), che dobbiamo anche sapere ribadire con forza quello che ci sembra meglio interpretare le esigenze del vangelo, ma nel rispetto della comunione sempre più grande, nell’obbedienza di tutti a Cristo, Signore della Chiesa.
4. Uno degli elementi che nella concezione conciliare della Chiesa è entrato in una fase di “riaggiustamento” è senz’altro la comprensione del “magistero”. Non si può ignorare questo fatto. Del resto la storia della teologia ci insegna come lo stesso termine di “magistero” abbia subito forti variazioni semantiche. Non si può inoltre negare che nella Chiesa delle origini esistesse una funzione dell’insegnamento che non è riducibile alla funzione di guida delle comunità. A noi non sembra che qualificare come “pastorale” il magistero implichi un attentato alla sua dignità o necessità, che anzi ne esalta il compito di presidenza nella comunione della fede. Ricordiamo le parole di Paolo: “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siete già saldi” (2 Cor.1,24).
Anche qui non abbiamo indicazioni facili per la soluzione delle questioni attuali. Ma è certamente necessario approfondire il delicato problema della estensione del magistero nel campo etico, in rapporto al cuore del messaggio evangelico. Come è bene non dimenticare il richiamo del Vaticano II al rispetto della “gerarchia delle verità”, per non appiattire tutto su di un unico e medesimo livello. Lo stesso Vaticano II inoltre attribuisce la crescita nella comprensione del messaggio cristiano non al solo “carisma certo della verità” che si esprime nella predicazione dei vescovi, ma ancor prima nello studio e nell’esperienza dei credenti (Dei Verbum 8). E questo non per stabilire priorità, ma per sottolineare il comune convergere di tutti i differenti carismi e servizi nella conoscenza della verità, ognuno secondo il dono ricevuto.
In questo contesto, nel riconoscimento del “carisma certo della verità” secondo i criteri che man mano la tradizione ecclesiale ha approfondito, non pensiamo che i teologi assolverebbero il loro compito semplicemente divulgando l’insegnamento del magistero e approfondendo le ragioni che ne giustificano le prese di posizione. Essi si pongono infatti al servizio della Chiesa anche quando raccolgono e propongono le domande nuove dell’intelligenza che scaturiscono dalle situazioni nuove che la fede attraversa, o quando percorrono assieme ai loro fratelli nella fede sentieri inesplorati sui quali pure si dovrà realizzare la fedeltà al Signore. Sempre in questo contesto diventa inoltre urgente il messaggio del Concilio agli “uomini di pensiero e di scienza”, proprio perché i mutamenti introdotti dalle possibilità nuove della scienza provochino sempre più l’approfondimento della fede, senza spirito di intolleranza, dentro e fuori della Chiesa.
Dovrebbe risultare chiaro, al termine di questa riflessione, essenziale e tuttavia limitata, bisognosa di ulteriori precisazioni e soprattutto di approfondimento come non abbiamo voluto dirimere le questioni aperte. Abbiamo soltanto cercato di indicare alcuni dei riferimenti che riteniamo essenziali perché la comune riflessione e la prassi dei credenti non regredisca a stadi di consapevolezza della fede che il Vaticano II ha permesso di superare. Ma soprattutto ci auguriamo che nel cammino dei prossimi anni sappiamo tutti ricercare quello che ci unisce, prima ancora di quello che ci divide. Anche questo fu un richiamo spesso ascoltato nell’ultimo Concilio, ad opera soprattutto di colui che lo volle, Giovanni XXIII.
Non è questo un giocare al ribasso o un misurare il minimo comune denominatore. Si tratta piuttosto di ritrovare con maggiore radicalità quell’unico fondamento su cui tutti siamo posti: Gesù Cristo nostro Signore.
I firmatari (63)
Attilio Agnoletto (Università Statale di Milano), Giuseppe Alberigo (Università di Bologna), Dario Antiseri (Università LUISS di Roma), Giuseppe Barbaccia (Università di Palermo), Giuseppe Barbaglio (Roma), Maria Cristina Bartolomei (Università di Milano), Giuseppe Battelli (Istituto per le Scienze Religiose Bologna), Fabio Bassi (Bruxelles), Edoardo Benvenuto (Università di Genova), Enzo Bianchi (Comunità di Bose), Bruna Bocchini (Università di Firenze), Giampiero Bof (Istituto Superiore di Scienze Religiose Urbino), Franco Bolgiani (Università di Torino), Gianantonio Borgonovo (Seminario arcivescovile di Venegono, Milano), Franco Giulio Brambilla (Seminario arcivescovile di Venegono, Milano), Remo Cacitti (Università di Milano), Pier Giorgio Camaiani (Università di Firenze), Giacomo Canobbio (Seminario di Cremona), Giovanni Cereti (Roma), Enrico Chiavacci (Studio teologico fiorentino), Settimio Cipriani (Facoltà teologica dell’Italia meridionale, Napoli), Tullio Citrini (Seminario arcivescovile di Venegono, Milano), Pasquale Colella (Università di Salerno), Franco Conigliano (Università di Palermo), Eugenio Costa (Centro Teologico di Torino), Carlo d’Adda (Università di Bologna), Mario Degli Innocenti (Istituto per le Scienze Religiose Bologna), Luigi Della Torre (Direttore di “Servizio della parola”, Roma), Roberto Dell’Oro (Seminario arcivescovile di Venegono, Milano), Severino Dianich (Studio Teologico Fiorentino), Achille Erba (Comunità San Dalmazzo, Torino), Rinaldo Fabris (Seminario di Udine), Giovanni Ferretti (Università di Macerata), Roberto Filippini (Studio teologico interdiocesano, Pisa), Alberto Gallas (Università del Sacro Cuore, Milano), Paolo Giannoni (Studio Teologico fiorentino), Rosino Gibellini (Direttore Editoriale Queriniana, Brescia), Réginald Grégoire (Università di Pavia), Giorgio Guala (Alessandria), Maurilio Guasco (Università di Torino), Giorgio Jossa (Università di Napoli), Siro Lombardini (Università di Torino), Italo Mancini (Università di Urbino), Luciano Martini (Università di Firenze), Alberto Melloni (Istituto per le Scienze Religiose, Bologna), Andrea Milano (Università della Basilicata), Carlo Molari (Roma), Dalmazio Mongillo (Roma), Mauro Nicolosi (Istituto di scienze religiose di Monreale, Palermo), Flavio Pajer (Istituto di liturgia pastorale, Padova), Giannino Piana (Seminario di Novara), Paolo Prodi (Università di Bologna), Armido Rizzi (Centro S. Apollinare, Fiesole), Giuseppe Ruggieri (Studio teologico S. Paolo, Catania), Giuliano Sansonetti (Università di Ferrara), Luigi Sartori (Seminario maggiore, Padova), Cosimo Scordato (Facoltà teologica sicula, Palermo), Mario Serenthà (Seminario arcivescovile di Venegono, Milano), Massimo Toschi (Lucca), Davide Maria Turoldo (Priorato S. Egidio, Sotto il Monte), Maria Vingiani (Segretariato attività ecumeniche, Roma), Francesco Zanchini (Università abbruzzese, Teramo), Giuseppe Zarone (Università di Salerno).
L’adesione dei firmatari è a titolo personale; non intende né può coinvolgere le istituzioni rappresentate.