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LO SPIRITO DI UN POPOLO DI EVANGELIZZATORI

Francesco, vescovo di Roma

Evangelizzatori con Spirito
Evangelizzatori con Spirito vuol dire evangelizzatori che si aprono senza paura all’azione dello Spirito Santo. A Pentecoste, lo Spirito fa uscire gli Apostoli da se stessi e li trasforma in annunciatori delle grandezze di Dio, che ciascuno incomincia a comprendere nella propria lingua. Lo Spirito Santo, inoltre, infonde la forza per annunciare la novità del Vangelo con audacia (parresia), a voce alta e in ogni tempo e luogo, anche controcorrente. Invochiamolo oggi, ben fondati sulla preghiera, senza la quale ogni azione corre il rischio di rimanere vuota e l’annuncio alla fine è privo di anima. Gesù vuole evangelizzatori che annuncino la Buona Notizia non solo con le parole, ma soprattutto con una vita trasfigurata dalla presenza di Dio.

Evangelizzatori che pregano e lavorano
Evangelizzatori con Spirito significa evangelizzatori che pregano e lavorano. Dal punto di vista dell’evangelizzazione, non servono né le proposte mistiche senza un forte impegno sociale e missionario, né i discorsi e le prassi sociali e pastorali senza una spiritualità che trasformi il cuore. Tali proposte parziali e disgreganti raggiungono solo piccoli gruppi e non hanno una forza di ampia penetrazione, perché mutilano il Vangelo. Occorre sempre coltivare uno spazio interiore che conferisca senso cristiano all’impegno e all’attività. [205] Senza momenti prolungati di adorazione, di incontro orante con la Parola, di dialogo sincero con il Signore, facilmente i compiti si svuotano di significato, ci indeboliamo per la stanchezza e le difficoltà, e il fervore si spegne. La Chiesa non può fare a meno del polmone della preghiera, e mi rallegra immensamente che si moltiplichino in tutte le istituzioni ecclesiali i gruppi di preghiera, di intercessione, di lettura orante della Parola, le adorazioni perpetue dell’Eucaristia. Nello stesso tempo « si deve respingere la tentazione di una spiritualità intimistica e individualistica, che mal si comporrebbe con le esigenze della carità, oltre che con la logica dell’Incarnazione ». [206] C’è il rischio che alcuni momenti di preghiera diventino una scusa per evitare di donare la vita nella missione, perché la privatizzazione dello stile di vita può condurre i cristiani a rifugiarsi in qualche falsa spiritualità.

Riconoscere che siamo popolo
La Parola di Dio ci invita anche a riconoscere che siamo popolo: «Un tempo voi eravate non-popolo, ora invece siete popolo di Dio» (1 Pt 2,10). Per essere evangelizzatori autentici occorre anche sviluppare il gusto spirituale di rimanere vicini alla vita della gente, fino al punto di scoprire che ciò diventa fonte di una gioia superiore. La missione è una passione per Gesù ma, al tempo stesso, è una passione per il suo popolo. Quando sostiamo davanti a Gesù crocifisso, riconosciamo tutto il suo amore che ci dà dignità e ci sostiene, però, in quello stesso momento, se non siamo ciechi, incominciamo a percepire che quello sguardo di Gesù si allarga e si rivolge pieno di affetto e di ardore verso tutto il suo popolo. Così riscopriamo che Lui vuole servirsi di noi per arrivare sempre più vicino al suo popolo amato. Ci prende in mezzo al popolo e ci invia al popolo, in modo che la nostra identità non si comprende senza questa appartenenza.

Il modello è Gesù
Gesù stesso è il modello di questa scelta evangelizzatrice che ci introduce nel cuore del popolo. Quanto bene ci fa vederlo vicino a tutti! Se parlava con qualcuno, guardava i suoi occhi con una profonda attenzione piena d’amore: «Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò» (Mc 10, 21). Lo vediamo aperto all’incontro quando si avvicina al cieco lungo la strada (cfr Mc 10,46-52) e quando mangia e beve con i peccatori (cfr Mc 2,16), senza curarsi che lo trattino da mangione e beone (cfr Mt 11,19). Lo vediamo disponibile quando lascia che una prostituta unga i suoi piedi (cfr Lc7,36-50) o quando riceve di notte Nicodemo (cfr Gv 3,1-15). Il donarsi di Gesù sulla croce non è altro che il culmine di questo stile che ha contrassegnato tutta la sua esistenza. Affascinati da tale modello, vogliamo inserirci a fondo nella società, condividiamo la vita con tutti, ascoltiamo le loro preoccupazioni, collaboriamo materialmente e spiritualmente nelle loro necessità, ci rallegriamo con coloro che sono nella gioia, piangiamo con quelli che piangono e ci impegniamo nella costruzione di un mondo nuovo, gomito a gomito con gli altri. Ma non come un obbligo, non come un peso che ci esaurisce, ma come una scelta personale che ci riempie di gioia e ci conferisce identità.

Toccare la miseria umana
A volte sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri. Aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza. Quando lo facciamo, la vita ci si complica sempre meravigliosamente e viviamo l’intensa esperienza di essere popolo, l’esperienza di appartenere a un popolo.

Accendere il fuoco nel cuore del mondo
È vero che, nel nostro rapporto con il mondo, siamo invitati a dare ragione della nostra speranza, ma non come nemici che puntano il dito e condannano. Siamo molto chiaramente avvertiti: «sia fatto con dolcezza e rispetto» (1 Pt3,16), e «se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti» (Rm 12,18). Siamo anche esortati a cercare di vincere «il male con il bene» (Rm 12,21), senza stancarci di «fare il bene» (Gal 6,9) e senza pretendere di apparire superiori ma considerando «gli altri superiori a se stesso» (Fil 2,3). Di fatto gli Apostoli del Signore godevano «il favore di tutto il popolo» (At 2,47; cfr 4,21.33; 5,13). Resta chiaro che Gesù Cristo non ci vuole come principi che guardano in modo sprezzante, ma come uomini e donne del popolo. Questa non è l’opinione di un Papa né un’opzione pastorale tra altre possibili; sono indicazioni della Parola di Dio così chiare, dirette ed evidenti che non hanno bisogno di interpretazioni che toglierebbero ad esse forza interpellante. Viviamole “sine glossa”, senza commenti. In tal modo sperimenteremo la gioia missionaria di condividere la vita con il popolo fedele a Dio cercando di accendere il fuoco nel cuore del mondo.

Cercare il bene del prossimo
L’amore per la gente è una forza spirituale che favorisce l’incontro in pienezza con Dio fino al punto che chi non ama il fratello «cammina nelle tenebre» (1 Gv 2,11), «rimane nella morte» (1 Gv 3,14) e «non ha conosciuto Dio» (1 Gv 4,8). Benedetto XVI ha detto che «chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi anche di fronte a Dio», [209] e che l’amore è in fondo l’unica luce che «rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di agire». [210] Pertanto, quando viviamo la mistica di avvicinarci agli altri con l’intento di cercare il loro bene, allarghiamo la nostra interiorità per ricevere i più bei regali del Signore. Ogni volta che ci incontriamo con un essere umano nell’amore, ci mettiamo nella condizione di scoprire qualcosa di nuovo riguardo a Dio. Ogni volta che apriamo gli occhi per riconoscere l’altro, viene maggiormente illuminata la fede per riconoscere Dio. Come conseguenza di ciò, se vogliamo crescere nella vita spirituale, non possiamo rinunciare ad essere missionari. L’impegno dell’evangelizzazione arricchisce la mente ed il cuore, ci apre orizzonti spirituali, ci rende più sensibili per riconoscere l’azione dello Spirito, ci fa uscire dai nostri schemi spirituali limitati. Contemporaneamente, un missionario pienamente dedito al suo lavoro sperimenta il piacere di essere una sorgente, che tracima e rinfresca gli altri. Può essere missionario solo chi si sente bene nel cercare il bene del prossimo, chi desidera la felicità degli altri. Questa apertura del cuore è fonte di felicità, perché «si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Non si vive meglio fuggendo dagli altri, nascondendosi, negandosi alla condivisione, se si resiste a dare, se ci si rinchiude nella comodità. Ciò non è altro che un lento suicidio.

L’azione misteriosa del Risorto
Poiché non sempre vediamo questi germogli, abbiamo bisogno di una certezza interiore, cioè della convinzione che Dio può agire in qualsiasi circostanza, anche in mezzo ad apparenti fallimenti, perché «abbiamo questo tesoro in vasi di creta» (2 Cor 4,7). Questa certezza è quello che si chiama “senso del mistero”. È sapere con certezza che chi si offre e si dona a Dio per amore, sicuramente sarà fecondo (cfr Gv 15,5). Tale fecondità molte volte è invisibile, inafferrabile, non può essere contabilizzata. Uno è ben consapevole che la sua vita darà frutto, ma senza pretendere di sapere come, né dove, né quando. Ha la sicurezza che non va perduta nessuna delle sue opere svolte con amore, non va perduta nessuna delle sue sincere preoccupazioni per gli altri, non va perduto nessun atto d’amore per Dio, non va perduta nessuna generosa fatica, non va perduta nessuna dolorosa pazienza. Tutto ciò circola attraverso il mondo come una forza di vita. A volte ci sembra di non aver ottenuto con i nostri sforzi alcun risultato, ma la missione non è un affare o un progetto aziendale, non è neppure un’organizzazione umanitaria, non è uno spettacolo per contare quanta gente vi ha partecipato grazie alla nostra propaganda; è qualcosa di molto più profondo, che sfugge ad ogni misura. Forse il Signore si avvale del nostro impegno per riversare benedizioni in un altro luogo del mondo dove non andremo mai. Lo Spirito Santo opera come vuole, quando vuole e dove vuole; noi ci spendiamo con dedizione ma senza pretendere di vedere risultati appariscenti. Sappiamo soltanto che il dono di noi stessi è necessario. Impariamo a riposare nella tenerezza delle braccia del Padre in mezzo alla nostra dedizione creativa e generosa. Andiamo avanti, mettiamocela tutta, ma lasciamo che sia Lui a rendere fecondi i nostri sforzi come pare a Lui.

Lasciarsi portare dallo Spirito
Per mantenere vivo l’ardore missionario occorre una decisa fiducia nello Spirito Santo, perché Egli «viene in aiuto alla nostra debolezza» (Rm 8,26). Ma tale fiducia generosa deve alimentarsi e perciò dobbiamo invocarlo costantemente. Egli può guarirci da tutto ciò che ci debilita nell’impegno missionario. È vero che questa fiducia nell’invisibile può procurarci una certa vertigine: è come immergersi in un mare dove non sappiamo che cosa incontreremo. Io stesso l’ho sperimentato tante volte. Tuttavia non c’è maggior libertà che quella di lasciarsi portare dallo Spirito, rinunciando a calcolare e a controllare tutto, e permettere che Egli ci illumini, ci guidi, ci orienti, ci spinga dove Lui desidera. Egli sa bene ciò di cui c’è bisogno in ogni epoca e in ogni momento. Questo si chiama essere misteriosamente fecondi!

Dall’Esortazione apostolica Evangelii gaudium, capitolo V (Evangelizzatori con Spirito) nn. 259, 262, 268-272, 279-280.
Il titolo e la titolazione dei vari numeri è redazionale.

Note – – – – – – – – – –
[205] Cfr Propositio 36.
[206] Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo Millennio ineunte (6 gennaio 2001), 52: AAS 93 (2001), 304.
[209] Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), 16:AAS 98 (2006), 230.
[210] Ibid., 39: AAS 98 (2006), 250.

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