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NATALE. ECCO L’AGNELLO DI DIO!

Daniele Garota

Lasciamo perdere angioletti, pastorelli e luminarie, per i credenti è ben altro che significa il Natale. Quello dell’incarnazione (così lo chiamano i teologi) è un mistero di follia, un abisso che dà vertigini soltanto a pensarlo, l’abisso della kenosis, di Dio che per amore ad un certo punto smise di considerarsi quel che era per fare il vuoto in sé, fino a diventare piccolo piccolo, come un bambino appena nato, come un pezzetto di pane che vuole essere mangiato, “una carne sola” con noi, come lo sposo con la sposa (Mc 10,9; cf Ef 5,28-29).

Una delle più belle espressioni di tutte le letterature, attorno al mistero dell’incarnazione, l’ha scritta, da giovane, un ateo, Jean Paul Sartre,
mettendola in bocca a Maria che stringe tra le sue braccia Gesù dicendogli: “Piccolo mio!”; guardandolo come un “Dio muto”, un “bambino terrificante”; e poi pensando, come solo una mamma sa fare: “Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatta di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Mi rassomiglia. È Dio e mi assomiglia… Un Dio piccolo che si può prendere nelle braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e che vive” (Bariona o il figlio del tuono).

Madri messianiche
I primi credenti capaci di accogliere un tale mistero venivano considerati atei dai pagani, senza religione e senza dèi, senza templi e senza statue, un ateismo di così vigorosa fede di cui autori modernissimi sono riusciti a percepirne la forza ancora dopo venti secoli, e proprio in mezzo alla nostra età atea e secolarizzata: un Girard è arrivato a definire Nietzsche il più grande teologo moderno dopo san Paolo.

Ci si pensi: non palpita forse nel cuore delle rivoluzioni moderne – fino all’ultima (e forse la più potente), quella tecnico-scientifica – il messaggio dei profeti e del Cristo, la speranza che viene da Israele, popolo unico per la sua povertà e piccolezza, ma anche per la sua poderosa voglia di redenzione e riscatto? Non nasce dalla carne di Israele Gesù? Si legga la genealogia dell’evangelista Matteo: chi, schizzinoso nella sua devozione angelicata potrebbe reggerne l’urto?
Una preponderanza di uomini certo, ma anche quattro donne sparpagliate lì in mezzo, oltre a Maria, la Madre. E tra esse nessuna del tutto in regola per mentalità perbene. Eppure è proprio in quel tipo di viscere femminili che ha voluto intrufolarsi lo Spirito, per generazioni, prima di regalare al mondo il Messia. E se c’è uno specifico, per così dire, natalizio, è proprio lì che abita, nella grandezza e povertà insieme di quelle cinque donne del tutto irregolari, giacché nemmeno Maria lo fu, nascendo da lei “Gesù, chiamato Cristo”, all’insaputa di Giuseppe, che di lei era “lo sposo”. Chi erano le altre? “Tamar”, un’incestuosa; “Racab”, una prostituta; “Rut”, una straniera; Betsabea, “la moglie di Uria”, un’adultera (Mt 1,1-17). Non male la schiera delle madri messianiche: di fronte ai predicatori della morale nessuna tra esse avrebbe passato l’esame, diciamoci la verità.

Rivoluzioni e spada
Ma leggiamolo bene il Magnificat allorché – davanti allo stupore dell’anziana cugina che l’aveva da poco chiamata “benedetta” insieme al “frutto del suo grembo” – le labbra santissime di Maria lo lasciarono decollare come uno degli inni più rivoluzionari della storia. Lo si legga a fianco del Manifesto scritto da Marx ed Engels quel canto, là dove si parla di “abolizione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche”, di solidarietà coi “proletari” che “non ci han da perdere che le loro catene” e da “guadagnarci tutto un mondo”:  non vi riscontriamo forse le stesse attenzioni a favore degli “affamati” e degli “umili”, lo stesso sogno di vedere “i ricchi a mani vuote” (Lc 1,42-53)?

Ma fin da subito la via si prospetta angusta e in salita, con l’ombra della croce che già netta si staglia alla luce di quella “stella” che pure donò “gioia grandissima” ai Magi (Mt 2,7-10). L’orrore invaderà prestissimo Betlemme e proprio a causa del piccolo Gesù: Erode infuriandosi manderà “a uccidere tutti i bambini” di quella città” da due anni in giù” (Mt 26,16). Gli avrà mai parlato la Madre di come “il lamento saliva nella notte, Rachele chiamava i suoi figli morti per lui e lui era vivo”?, ci chiediamo insieme a Camus (La caduta).

Ma non sarà che l’inizio, a parlarne, nel tempio a Gerusalemme, fu Simeone, un “uomo giusto” che – accogliendo il bambino Gesù tra le braccia come segno di salvezza e di “contraddizione”, per “la caduta e la risurrezione di molti in Israele” – non esitò a scagliare il tremendo nel cuore della giovane Madre: “Anche a te una spada trafiggerà l’anima” (Lc 2,25-35).

Dio nel mondo
L’“Agnello, come immolato” dell’Apocalisse (5,4) è già nel mistero dell’umiltà di Betlemme, è solo entrando negli abissi del male e della morte che Dio ha potuto salvarci. Se la fede non crede questo si stacca dal mondo e dal Dio di Cristo, di colui che il mondo continua ad amarlo e “tanto” (Gv 3,16), ed è perciò fede che nulla ha più da dire né al mondo né a quelli che nel mondo hanno “fame e sete della giustizia” (Mt 5,6).

Se però riesce ancora a crederlo, allora è diverso, allora si scopre che è proprio il dramma che ci attanaglia a renderci ancora capaci di gridare con Nietzsche: “Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!” (La gaia scienza, 125). Solo chi riesce, come Nietzsche, a dimorare “in ogni angolo dell’anima moderna” (Jaspers) può arrivare a toccare ciò che egli ha toccato col suo grido e con la sua follia. Solo credenti del calibro di un Pascal, di un Kierkegaard, di un Dostoevskij possono tenergli testa con la loro capacità di domanda e discesa negli abissi del cuore umano, dell’assurdo della storia, con la loro fede intrisa di disperazione e speranza e perciò umana, terrena, aperta al Dio di Cristo fin negli angoli più acuti della sua tribolazione.

Non morirà con una domanda soffocata in gola il Dio di Gesù? Un Dio che non ci ha abbandonati proprio abbandonandosi (il Padre che abbandona il Figlio) a noi, mettendosi nelle nostre mani che arrivarono a crocifiggerlo, a ucciderlo? Non era infatti il Padre, anche in croce, “una cosa sola” col Figlio (Gv 10,30)? E non potrebbe essere questo il motivo per cui non ci fu risposta in quel terribile “mezzogiorno” di “buio su tutta la terra” (Mt 27,46-50;Mc 15,34-37)?

Da Betlemme a Greccio
Chi in maniera del tutto singolare riuscì a immedesimarsi nei patimenti del Cristo, fino a ricevere piaghe simili nel costato, nei piedi e nelle mani, fu certamente Francesco d’Assisi. Proprio lui, si dice, inventò il presepe, riscoprì cioè, dopo secoli di cristianesimo ‘trionfante’, il dolore, l’umiliazione, la croce del Cristo, rivivendoli in prima persona nel proprio intimo e nel proprio corpo.

I suoi biografi dicono che “meditava continuamente le parole del Signore e non perdeva mai di vista le sue opere. Ma soprattutto l’umiltà dell’Incarnazione e la carità della Passione aveva impresse così profondamente nella sua memoria, che difficilmente gli riusciva di pensare ad altro”. Tre anni prima di morire organizzò nel giorno di Natale, a Greccio, una particolare celebrazione, per riuscire “in qualche modo a vedere con gli occhi del corpo i disagi” in cui si è trovato Gesù appena nato “per la mancanza delle cose necessarie”,  quando “fu adagiato in una greppia” sul fieno. Cosa non si darebbe oggi per vederlo lì, il Poverello, “rivestito dei paramenti diaconali” che si mette a cantare rievocando “con parole dolcissime… il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme”. E sappiamo che quando nominava “’Betlemme’ lo pronunciava riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora” (Fonti Francescane, 468-470). O forse, di agnello.

“Ecco l’agnello di Dio!”, disse il Battista per ben due volte, mentre “stava battezzando”, e mentre stava “là con due dei suoi discepoli, fissando lo sguardo su Gesù che passava” (Gv 1,28-29.36). E continuano a dire i sacerdoti ancora oggi alzando ogni volta per noi in alto l’Eucaristia prima di mettercela in mano.

Daniele Garota
Scrittore (Urbino)


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