“LITURGIA DI POPOLO”
E DIVERSITA’ MINISTERIALE

Cesare Baldi 

Il termine “liturgia” deriva dal greco λειτουργία, che significa letteralmente “azione per il popolo”, composto da liton (λήιτον), il “luogo degli affari pubblici” cioè del popolo (λαός), e ergon (ἔργον), l’opera, il lavoro, l’attività. L’antica Grecia prevedeva liturgie civili, militari e cultuali; in tribunale, quando ci si alza in piedi perché entra la corte, vestita di solenni toghe nere, si sta propriamente celebrando un rito, una liturgia civile, un’azione di popolo con le sue regole, i suoi ruoli e i suoi tempi. Quindi l’espressione “liturgia di popolo” è una tautologia, perché una liturgia richiede per definizione una partecipazione corale, di popolo.

Una doppia lamentela L’uso corrente del termine in ambito ecclesiale non corrisponde però esattamente alla sua etimologia, specie quando il popolo, cioè l’assemblea che celebra, è ridotto a pochi elementi e la celebrazione rischia di essere povera, priva di una partecipazione multiforme e ricca di interventi distinti e appropriati: preghiere, riflessioni, espressioni canore o danze rituali. La liturgia si riduce così a poco più che un’azione individuale del “celebrante”, altro termine usato di frequente nelle nostre canoniche, che immediatamente separa chi celebra da chi assiste.

È ovvio che in un’assemblea liturgica non tutti possono svolgere le stesse funzioni, ma il senso stesso della riforma liturgica sta proprio nella partecipazione “piena, attiva e comunitaria” di tutti i fedeli presenti (cf. SC 21) ed è assai deprimente quando i testi liturgici prevedono tra chi presiede e l’assemblea un dialogo che incespica ...

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