RILEGGERE E REINTERPRETARE LA TRADIZIONE
Dalla Presentazione del volume.
Un grande punto interrogativo accompagna il termine “indissolubile” sulla copertina di questo volume. La grande domanda che viene sollevata con questo punto interrogativo non deve però essere fraintesa. Essa si colloca, apertamente, nella larga scia che è apparsa per merito della “svolta pastorale”, prodotta sul grande mare di Dio – pelagus infinitae substantiae – dalla grande virata che la navicella della Chiesa ha compiuto con il Concilio Vaticano II. Essa rappresenta una occasione senza pari per rileggere e reinterpretare la tradizione cristiana. Mediante la decisiva distinzione tra “sostanza dell’antica dottrina” e “formulazione del suo rivestimento” questa svolta configura un più adeguato rapporto tra continuità sostanziale della dottrina e discontinuità espressiva della tradizione. Ciò appare particolarmente urgente soprattutto per quanto riguarda, in generale, la teologia del matrimonio e, in particolare, il modo di affrontare le questioni dei “fedeli divorziati risposati”.
Vorrei qui affermare, nel modo più esplicito, che senza questa “svolta”, la tradizione dottrinale della Chiesa cattolica rischierebbe di precludersi, in modo pressoché integrale, la possibilità di intendere davvero le questioni che oggi attraversano la società e la cultura e che riguardano, non secondariamente, soggetti credenti, battezzati e praticanti. Solo se la Chiesa, di fronte a questi sviluppi, avrà saputo lasciarsi profondamente interrogare su di sé, sul modo di essere fedele al Vangelo e alla Parola del suo Signore, sarà in grado di corrispondere adeguatamente alle sfide che la cultura tardo-moderna lancia in modo nuovo e sorprendente alle forme di vita matrimoniali e familiari.
La “svolta pastorale” indica perciò due opportunità da non trascurare:
a) da un lato, essa sviluppa nella Chiesa una riflessione che non può escludere di aver bisogno di un affinamento della dottrina. Essendo costretta ad interrogarsi radicalmente sulla sostanza della dottrina – a fronte di profondi mutamenti delle forme di vita, del controllo sociale, delle forme del consenso e delle scelte dei soggetti – la tradizione ecclesiale può cogliere l’occasione per trovare le forme di un annuncio del “vangelo del matrimonio” che sappia accuratamente discernere tra “ciò che non muore” e “ciò che può morire”.
b) D’altro canto, se la posizione ecclesiale si irrigidisce nell’identificare la sostanza della propria tradizione soltanto in una formulazione drastica e recisa della dottrina, rischia di confondere i livelli della sostanza con quelli della espressione, fino a perdere ogni contatto con la storia, in ragione di una difesa ad oltranza non della verità, ma di una formulazione di essa, che mostra di non esser più adeguata a mediare il vangelo in una diversa epoca della storia della Chiesa.
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[“Indossolubilità”] rientra tra quelle “formule classiche” con cui la dottrina ha espresso il rapporto con la verità mediante una “negazione di negazioni”. Lo si è fatto per diverse esperienze centrali della vita di fede: per la autorevolezza della pagina biblica si è parlato di “inerranza”; per l’autorità del Vescovo di Roma in quanto Papa si è parlato di “infallibilità”; così, per il disegno di unità che Dio riserva al rapporto tra uomo e donna si è utilizzato il termine “indissolubilità”. Nessuno può negare quanto questo concetto abbia saputo orientare con forza e determinazione non solo il pensiero, ma le vite e i desideri di molte generazioni di cristiani.
Ma la forza con cui la tradizione può continuare ad essere feconda deve tener conto del limite intrinseco di ogni “formula negativa”. Negare una negazione è una cosa; affermare positivamente una verità, è un’altra cosa. Che l’unità che Dio dona alla comunione tra uomo e donna implichi il divieto che l’uomo possa scioglierla – e questo deve essere certamente confermato con tutta la forza necessaria – non è una affermazione che decida, immediatamente, quelle problematiche di esperienza di sé e dell’altro che derivano – in modo originale e non assimilabile al passato – dalla nuova coscienza tardo moderna del soggetto libero, titolare di diritti, che vive il matrimonio anche sempre secondo le logiche del sentimento e dell’affetto e che non può semplicemente “adeguarsi” ad un modo di comprendere quella esperienza, che risponde ormai ad un altro modello e ad un altro stadio della civiltà e della autocoscienza. La “trasformazione della intimità”, al di là delle teorie con cui viene interpretata, è un fenomeno che ha profondamente modificato e sviluppato l’esperienza dei soggetti tardo-moderni e che non può essere liquidata, semplicemente, come un tema cui applicare le confutazioni pur necessarie, ma spesso autoreferenziali, di una teologia apologetica.
Lo ripeto: qui non è in discussione la sostanza della dottrina di ciò che è stato chiamato “indissolubilità matrimoniale”. Qui deve essere discussa la adeguatezza con cui il disegno di unità che Dio ha disposto per l’amore tra uomo e donna possa essere pienamente espresso da questa categoria di “indissolubilità” e in particolare dalla sua concezione giuridico-ontologica. Questa discussione, che riguarda la relazione tra sostanza della dottrina e sua formulazione linguistica, costituisce un punto preliminare decisivo per una corretta impostazione della problematica dei “fedeli divorziati risposati”” Da un lato, infatti, se teniamo ferma la identificazione della dottrina ecclesiale con questa formulazione classica, troviamo immediatamente, e senza grande fatica, una soluzione radicale della questione, nel senso che la questione stessa non ha consistenza, non può sussistere. E’ la impostazione classica che, maturata in un contesto civile, culturale ed ecclesiale profondamente diverso dal nostro, oggi non è neppure in grado di riconoscere la questione dei “fedeli divorziati risposati” nella sua portata sociale ed esistenziale; oppure, in tutta buona fede, essa propone soluzioni marginali, che, nel loro fondo, non riconoscono il carattere problematico dei fatti che vogliono interpretare.
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Come tenterò di mostrare, al concetto “oggettivo” di “indissolubilità”, cui la società contemporanea è tentata di contrapporre il concetto “soggettivo” di “disponibilità”, dovremmo affiancare il concetto “intersoggettivo” di “indisponibilità”.
Infatti, una teoria classica della indissolubilità può trovare una soluzione alla “seconda unione” soltanto in due modi: o negando la prima unione (mediante accertamento della sua nullità del matrimonio) o influendo sulla seconda unione (o mediante la richiesta di ritorno alla prima unione oppure, in caso di irreversibilità, mediante la richiesta di vivere la seconda unione “come fratello e sorella”). Invece, una teoria della “indisponibilità” può riconoscere che, nulla togliendo alla radicalità della indicazione evangelica circa la unità dei due coniugi, si può guadagnare una prospettiva più “pudica” circa l’esistenza del vincolo, accettando che anch’esso, come i coniugi, “possa morire”. La “morte morale del vincolo” assume in più di un caso la caratteristica della indisponibilità, ossia non dipende direttamente da una “decisione” dei coniugi.
Se questo fosse il caso, la Chiesa potrebbe ammettere – in circostanze determinate e non come una legge generale – che ilriconoscimento della nuova unione non avrebbe bisogno di fondarsi sulla “inesistenza originaria” della precedente unione, ma potrebbe costatare la “morte del vincolo” e così dischiudere l’orizzonte di un “nuovo inizio” possibile, vivibile e riconoscibile, anche sul piano della ufficialità ecclesiale.
Si tratterebbe, in sostanza, di unire “radicale” e “pudico”. Di lasciare intatto il radicale slancio profetico all’unità, richiesto dal Vangelo, coniugandolo però con un sano e pudico realismo, dovuto alla storia e richiesto anche dal buon senso.
Ovviamente, in tutte queste ipotesi si tratta di una riflessione “de lege condenda”, che, pur non essendo priva di precedenti in Oriente ed Occidente, dovrebbe essere assunta apertamente, da parte del magistero della Chiesa, come una prospettiva che, senza mutare la sostanza della dottrina, si disponesse a mutare profondamente la disciplina e il linguaggio della tradizione.
Una coraggiosa traduzione a favore della intelligenza della tradizione: questo mi sembra l’attuale compito ecclesiale. Non è facile, certo; ma ancor meno facile è illudersi di poterne fare a meno; a meno di voler rimuovere totalmente la questione e volersi chiudere – secondo un istinto antimoderno piuttosto radicato – in una Chiesa ancora più autoreferenziale.
Andrea Grillo
Savona, 11 aprile 2014