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L’opera e il pensiero

Quale memoria per Congar?

Fare memoria di Yives Congar non può voler dire registrare e fissare in un insieme di tesi il suo pensiero teologico, ma immettersi in quel processo di ricerca e di servizio della verità che lo ha contraddistinto come credente e come teologo. In effetti, il suo apporto e le sue acquisizioni sono ormai di dominio comune, e dopo che sono stati recepiti in gran parte del Concilio Vaticano II rischiano addirittura di diventare luoghi comuni col rischio di far apparire la sua eredità lettera morta, innovativa solo rispetto ad una situazione ormai pregressa e trasformata.

Ma cosa può dire Yves Congar a chi volesse mantenerne una memoria viva e non solo commemorativa o ripetitiva, in modo che una sua rilettura non si fermi a lui ma sviluppi il suo lavoro? Per rispondere a questo interrogativo forse possiamo affidarci ad una sua annotazione, fatta appena qualche giorno dopo la chiusura del Concilio, ma adatta all’insieme della sua opera: «Il pericolo è che non si cerchi più, ma che si estragga semplicemente dall’inesauribile deposito del Vaticano II; in tal caso si inizierebbe un’epoca post-vaticana, come è esistita un’epoca post-tridentina. Sarebbe un tradire l’aggiornamento il ritenerlo fissato una volta per tutte nei testi del Vaticano II».

Se davvero vogliamo fare memoria, non basta rispecchiarci nelle sue tesi, ma è necessario lasciarci coinvolgere nel dinamismo del suo pensiero sempre in fieri, a dimostrazione del fatto che doveva rispondere, come opera di intelligenza, ad istanze primarie di carattere storico e di natura ecumenica in chiave evangelica. Si può dire infatti che lo spirito apostolico e domenicano di Y.Congar è sollecitato all’azione e alla riflessione dalle situazioni socio-politiche ed ecclesiali che ha avuto in sorte di vivere.

Una nuova ecclesiologia…

  • Di fronte alla scristianizzazione

Egli è uno dei primi a porsi il problema di quella scristianizzazione, che diventerà tema centrale delle lettere del cardinale di Parigi Suhard e motivo di riflessione e azione per il movimento dei “preti operai”. In un numero di Esprit del 1961 ci rende egli stesso questa testimonianza: «Quando nel 1935 i miei confratelli delle Editions du Cerf mi chiesero di redigere una conclusione teologica all’inchiesta che la Vie intellectuelle aveva condotto per tre anni sulle cause attuali dell’incredulità, fui indotto non soltanto a formulare un’interpretazione d’insieme, ma a riflettere su quello che si poteva fare. Mi sembrò che, per quel tanto che la fede o l’incredulità dipendevano da noi, lo sforzo da fare era uno sforzo di rinnovamento dell’ecclesiologia. Bisognava ritrovare, nelle fonti sempre vive della nostra tradizione profonda, un senso e un volto della Chiesa che fossero veramente quelli del Popolo di Dio-Corpo di Cristo, Tempio dello Spirito Santo. Da questa conclusione sono nati la collezione Unam Sanctam e i libri che ho pubblicato io stesso: Chrétiens désunis; Vraie et fausse réforme dans l’eglise; Jalons pour une théologie du laicat. Da sette o otto anni sono giunto a una nuova conclusione: non bisogna rinnovare alle fonti soltanto la nostra idea e la nostra presentazione della Chiesa, ma anche la nostra idea di Dio come Dio vivente, e, di fronte ad essa, la nostra idea della fede».

  • Verso l’ecumenismo

Per quanto riguarda invece la situazione ecumenica che ha attraversato tutta la sua ricerca, c’è da dire che l’unità della Chiesa era stata oggetto della sua tesi di laurea, mentre una delle sue prime opere fu Cristiani disuniti, principi di un ecumenismo cattolico. Successivamente, in Cristiani in dialogo, rende questa testimonianza: «Mi è apparso ben presto che l’ecumenismo non è una specializzazione, che esso comporta un movimento di conversione e di riforma che sono coestensivi con la vita di tutte le comunioni cristiane. Mi è parso ugualmente chiaro che, per ognuno, il lavoro ecumenico va compiuto innanzi tutto a casa propria, presso i suoi. Per noi in particolare si tratta di far girare la Chiesa cattolica di qualche grado attorno al proprio asse, verso quella convergenza e quella unanimità che è possibile con le altre confessioni sulla base di una fedeltà più profonda e più leale alla nostra Fonte unica e alle nostri fonti comuni. Di qui il mio programma, che ho tracciato in Chrétiens désunis e che è stato successivamente messo in opera in altri miei lavori: Vraie et fausse réforme dans l’eglise, Jalons pour une théologie du laicat, La Tradition et les traditions» .

  • Attraverso una riforma tra spirito e storia

Se Congar diventerà poi – a detta di altri – il “teologo del Concilio”, è a partire da queste istanze, a cui ha cercato incessantemente di dare risposta e che sono tuttora vive: se non le vogliamo lasciar cadere, è utile ripercorrere e rivivere il suo pensiero in maniera feconda, ma soprattutto è necessario assumersi il suo compito o munus theologicum a servizio del Popolo di Dio. Proprio questa sua sensibilità storica ed ecumenica insieme gli impedirà di scrivere un vero e proprio trattato sulla Chiesa, per quanto se lo fosse proposto; ma egli rimane aperto a tutte le problematiche che via via si presentano, nell’intento di fondo di riportare la chiesa al suo significato originario per renderla evangelicamente attuale nel mondo: da una chiesa “gerarcologica” si sarebbe dovuti passare ad una chiesa di comunione e Popolo di Dio.

Tutto questo, però, non come passaggio soltanto ideale o teorico, ma come processo storico da accompagnare come riflessione e da mettere in opera come riforma: si potrebbe allora dire che Y.Congar è il “teologo della riforma della chiesa” (come per altro verso si potrebbe dire di Hans Küng), tanto che tutti i temi da lui trattati (pensiamo al laicato, alla rivelazione, alla tradizione, ai ministeri, al popolo di Dio ecc..) trovano il loro punto di sintesi e la loro messa in opera proprio nella sua opera più nota, del 1950, Vera e falsa riforma della chiesa. E se oggi si torna sempre più spesso a parlare di riforma, sia per invocarla che per deprecarla e scongiurarla, proprio l’opera di Congar diventa un passaggio obbligato, per dare spessore storico e soteriologico ad una chiesa ridotta spesso a ricettacolo di religiosità spuria.

In questa linea, una rilettura dell’opera di Congar, che non si limiti ad enunciazioni particolari ma assecondi l’evoluzione di una fede pensosa e pensante, è quanto dovremmo tornare a fare, per capire come il discorso della riforma arrivi a diventare, con Giovanni XXIII, “aggiornamento”; e per capire anche come l’aggiornamento non possa rimanere il frutto di una sola stagione ma debba diventare il nuovo nome della riforma! È in questo campo che si gioca oggi la partita e il destino del Concilio a 50 anni dalla sua chiusura, e sarebbe ingeneroso dimenticare quanti l’hanno generato nella sofferenza e nella prova o tradirne la memoria edificando loro monumenti senza raccoglierne l’eredità.

P. Congar non è un riformatore in senso convenzionale, ma nel suo lavoro teologico di discernimento profetico raccoglie tutte le istanze e le sollecitazioni della storia e dello Spirito, per porre a tema quella riforma della Chiesa, che la Chiesa stessa è chiamata ad operare su se stessa in risposta alla sua vocazione e missione. È ciò che egli chiama, appunto, «rinnovamento della ecclesiologia», in cui il problema della riforma entra di diritto ed in maniera qualificante. Forse c’è troppa ecclesiologia che rinnova se stessa, ma non è fattore di rinnovamento! È come rimettere in moto un processo vitale nella esistenza del popolo di Dio, uscendo dal fissismo della visione giuridico-societaria di una Chiesa gerarchizzata ed entrando nella dinamica delle sue forme storiche e delle sue prospettive escatologiche. È il senso di ciò che egli chiama tradizione, come principio di continuità e regola di rinnovamento: da un sistema statico e chiuso ad un sistema dinamico e aperto.

Una nuova teologia…

  • Motore di una chiesa vivente, semper reformanda

Qui emerge un altro asse portante di tutta l’opera di Y.Congar: il ruolo della teologia in ogni processo di riforma o di aggiornamento, che guardi non solo ai vertici e alle strutture, ma al soggetto-chiesa vivente. A questo proposito, in Vera e falsa riforma nella chiesa (Jaca Book 1972, p.15) così si esprime: «Di fatto la teologia cattolica ha studiato poco la vita della Chiesa. […] In linea generale la teologia cattolica si è soffermata poco sulle realtà cristiane nel loro soggetto religioso. […] Il duplice ambito dell’azione dei soggetti religiosi e dell’esistenza temporale ha attirato poco l’attenzione dei teologi, che l’hanno affidata ai canonisti, agli autori spirituali, agli apologeti e agli storici».

Sotto questi aspetti, l’istanza e la metodologia di riforma avanzata dal P. Congar la si può configurare in quell’aggiornamento con cui Giovanni XXIII ha voluto lanciare il Concilio: un aggiornamento non di maniera o di facciata, meccanico e funzionale, ma precisamente quello che ha nel discorso di apertura del Concilio i suoi motivi ispiratori ed il suo statuto. Quando si parlerà di Concilio pastorale si dovrà tener conto che finalmente il soggetto chiesa-Popolo di Dio, la pastorale, la vita della Chiesa, la sua storia, la sua prassi apostolica, la sua presenza nel mondo… sono diventate Concilio in atto, per dare un’anima alla stessa dottrina e agli assetti istituzionali, tutti da ripensare e da rimodellare a servizio della Parola viva del Vangelo.

Dunque c’è un ponte da gettare tra la concezione e proposta di riforma del P. Congar e il futuro aggiornamento, il nome nuovo per dire la dialettica tra movimento e riforma, nel senso che nessuna riforma compiuta potrà mai esaurire la spinta propulsiva al rinnovamento. Per cui la chiesa non deve contentarsi di attuare o approvare di tanto in tanto una qualche particolare riforma, ma deve imparare a vivere in stato di riforma (semper reformanda), appunto come aggiornamento costitutivo, come cammino, crescita, sviluppo e rinnovamento. Nella prefazione alla seconda edizione della sua opera, P. Congar fa lui stesso questo passaggio dal riformismo anni ’50 all’epoca dell’aggiornamento: «Ci sembra che nel 1947-50 le ricerche teologiche e pastorali venissero ancora sviluppate, da parte nostra, nel quadro delle realtà tradizionali della chiesa e a partire da esse: si voleva adattarle alle situazioni nuove rivelate dalle inchieste e dall’esperienza; ma non mutarle dall’interno. Si trattava principalmente di adattamenti apostolici e l’autorità pontificia ne riconosceva volentieri la validità. Giovanni XXIII, in meno di qualche settimana, e in seguito il Concilio hanno creato un clima ecclesiale nuovo. L’apertura maggiore è venuta dall’alto. Di colpo, delle forze di rinnovamento che stentavano a manifestarsi apertamente potevano svilupparsi. I timidi esempi di riforme che si trovano menzionati nel nostro testo del 1950 sono largamente superati. Quanto avviene oggi, dal punto di vista positivo, corrisponde certo a ciò che desideravamo, ma sorpassa di gran lunga ciò che si poteva sperare nel 1950» (Vera e falsa riforma… pp.9-10).

Questo dice il P.Congar intorno al 1972, ma forse è doveroso – oltre che lecito – chiedersi a che punto siamo e soprattutto come ci muoviamo in questa prospettiva, perché ci sia giusta continuità nel passaggio d’epoca che è avvenuto: non solo negli intenti e negli auspici, e neanche negli schieramenti come presa di posizione pro o contro il Concilio, ma come maturazione di una coscienza, di una presenza, di uno stile di chiesa che rispondano alla finalità di “messaggio al mondo” che questa dovrebbe incarnare prima ancora che pronunciare.

  • Centrata sull’economia di salvezza

È soprattutto qui che la lezione del P.Congar è vitale per noi, se vogliamo contribuire a questa riforma e dare il nostro apporto all’aggiornamento conciliare non in questo o quel punto di dottrina o di prassi, ma in ordine ad una immagine e forma di chiesa all’altezza dei tempi. Egli sembra dirci, come ci ha fatto capire, che «non bisogna rinnovare alle fonti soltanto la nostra idea e la nostra presentazione della Chiesa, ma anche la nostra idea di Dio come Dio vivente, e, di fronte ad essa, la nostra idea della fede». E cioè che non basta fare la teologia di questo o di quest’altro, e magari dare particolari risposte a tutti i singoli problemi che si presentano quanto a verità di fede, sul piano storico-sociale, in chiave etica. Si tratta di riattivare una funzione teologica di fondo che ponga al centro la “questione Dio” e la “questione fede” come asse portante e criterio di discernimento della intera esistenza umana e storica in ordine alla salvezza: è quella che viene chiamata “economia” della salvezza, di cui una teologia deve farsi carico, prima ancora di ogni altra urgenza.

Dopo che teologi per vocazione come Congar ci hanno preparato e regalato il Vaticano II, è invalsa l’idea che di una teologia si potesse fare a meno, per attingere direttamente a piene mani dalla Scrittura e dai testi conciliari come prontuari di soluzioni date, dispensandosi da quella faticosa mediazione mentale con la realtà di quel “vasto mondo mia parrocchia” che Congar ha avuto sempre presente e a cuore, e che sollecita ad un continuo ripensamento della propria fede e del proprio modo di essere chiesa.

  • Capace di orientare le dinamiche più concrete di una chiesa nel mondo

A questa capacità di visione d’insieme siamo richiamati da una rilettura dell’opera di Congar, salvo restando che a partire di qui ed in questa ottica egli prende in esame tutti gli aspetti della vita di una chiesa nel mondo, evitando di vivisezionarli al punto che a fronte di mille operazioni o teologie riuscite, il corpo ecclesiale appare alquanto compromesso. In ogni caso, se si desiderasse conoscere il punto di vista e il suo pensiero riguardo a tematiche specifiche e a situazioni attuali, si può fare ricorso a Conversazioni d’autunno (Queriniana, 1987), un insieme di risposte e di pronunciamenti che P.Congar ha rilasciato a Bernard Lauret durante due anni della sua lunga malattia.

Ecco quanto egli dice “come conclusione”, a testimonianza della sua statura umana e spirituale: «… Sono alcune risposte improvvisate a domande poste amichevolmente, all’inizio di serata, ad un uomo ospedalizzato dal 9 ottobre 1984. Cerco di tenermi al corrente, ma non lo posso se non in forma parziale e dispersa. Sono privo di quello scambio di idee che permette di completare o di correggere ciò che, nei miei propositi, è molto probabilmente discutibile. Si deve ammettere certo che, due anni dopo l’inizio di queste conversazioni, avrei talvolta cose migliori da dire, poiché si impara qualche cosa tutti i giorni. E poi ci sono tante pubblicazioni, il viaggio del santo Padre in Francia e l’incontro delle religioni del 27 ottobre ad Assisi. Non posso quasi più scrivere. E tuttavia, come in tutto ciò che ho scritto e pubblicato, ho messo qui qualche cosa del mio spirito. Ritirato dalla vita attiva, sono unito al corpo mistico del Signore Gesù di cui spesso ho parlato. Lo sono, di giorno e di notte, con la preghiera di un uomo che ha anche la sua parte di sofferenza. Ho un’acuta coscienza delle immense dimensioni del corpo mistico. Con e nello Spirito santo sono presente ai suoi membri conosciuti (da me) o sconosciuti. L’ecumenismo vi ha evidentemente la sua parte. È intercessione, consolazione, azione di grazie, finché il Signore lo vorrà» (Conversazioni d’autunno, pp. 115-16).

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