La teologia della liberazione letta alla luce dell’Evangelii nuntiandi
All’interno del clero salvadoregno alcune realtà associative e taluni sacerdoti sono vicini alle posizioni della teologia della liberazione, diffusa in molti Paesi dell’America latina. Per il vescovo Romero, le cui letture sono fondamentalmente documenti del Magistero, commentari biblici e testi di patristica, la teologia della liberazione, portata avanti in Salvador principalmente dai gesuiti dell’Università Centroamericana, è un qualcosa che inizialmente non lo attrae in modo particolare e di cui non si occupa. Gli appare una lettura troppo politicizzata del messaggio cristiano.
Il vescovo Romero però man mano si accorge della condizione di miseria e di sfruttamento della propria gente. Inizia così anche a guardare con occhi diversi alla teologia della liberazione, sottolineando però il fatto che la versione da lui accettata è quella che ha un orizzonte pastorale e religioso, non certo politico.
Romero condivide con i teologi della liberazione l’idea della centralità dei poveri e deriva ciò dal Magistero della Chiesa, dal Concilio, da Paolo VI, da Medellín. L’opzione preferenziale per i poveri, per le masse diseredate che in Salvador sono soprattutto quelle contadine, nasce nell’arcivescovo da una riflessione di tipo spirituale, ma è comunque provocata anche dalle contingenze storiche. La sua non è dunque una scelta di carattere ideologico, ma evangelico e deriva da una lettura di ciò che accade in Salvador operata sulla base della Scrittura e dei testi del Magistero. Il riferimento è a Cristo che è nato povero e si è messo dalla parte dei poveri.
Tutto ciò lo deriva da un documento, che per Romero è un punto di riferimento essenziale, l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975) di Paolo VI.
Le comunità ecclesiali di base accettate e promosse
Per far fronte alla forte carenza di sacerdoti, anche in Salvador, come in altri Paesi dell’America latina, si diffondono le comunità ecclesiali di base. Si tratta di una Chiesa popolare, che si richiama alle comunità cristiane delle origini. I riferimenti dottrinali degli animatori delle varie comunità divengono ben presto il Concilio Vaticano II e i documenti di Medellín. Queste comunità maturano progressivamente una nuova idea di Chiesa, percepita non più come “corpo mistico di Cristo”, ma come “popolo di Dio”. Da una Chiesa intesa in senso piramidale si passa ad una Chiesa vista come una “comunità” di persone che si incontra a pregare, a confrontarsi sulla Parola di Dio, a interrogarsi sulle urgenze che la storia richiede. In una realtà di diffuse ingiustizie sociali, queste comunità si caratterizzano ben presto per un forte impegno nella coscientizzazione politica e molti loro membri sono attivi nelle organizzazioni popolari, nei sindacati rurali e, in alcuni casi, nella guerriglia rivoluzionaria.
Romero crede suo dovere incrementare le comunità di base, anche per raggiungere in questo modo i villaggi più lontani dal luogo in cui risiede il sacerdote. Ritiene però che le comunità di base debbano avere un carattere eminentemente religioso e non politico: loro compito deve essere l’apostolato tra i contadini e i poveri. Anche in questo caso Romero trova confermata la propria idea dall’Evangelii nuntiandi, in particolare al cap. 58. Romero vuole che le proprie comunità di base abbiano tali caratteristiche e per questo motivo le incontra frequentemente e si confronta con loro.
Voce dei senza voce
Nel febbraio del 1977 Romero viene nominato arcivescovo di San Salvador. Numerosi sacerdoti di San Salvador, quelli più attivi nella pastorale sociale, sono delusi dalla nomina di Romero, in quanto lo vedono su posizioni contrarie alle novità elaborate a Medellín e anche a quanto stabilito dal Concilio.
Mentre Romero sta prendendo le misure della nuova diocesi, la situazione in Salvador diviene sempre più drammatica e la repressione ad opera delle Forze di Sicurezza e degli squadroni della morte si intensifica. Il 12 marzo 1977, solamente 20 giorni dopo il suo ingresso in diocesi, avviene un fatto che inciderà in modo fondamentale su Romero: padre Rutilio Grande, un suo fraterno amico, viene assassinato a colpi di arma da fuoco. Padre Rutilio Grande era un gesuita che aveva lasciato la carriera universitaria presso la grande università dei gesuiti, la Uca, l’Università Centroamericana di San Salvador, per stare in mezzo alla gente come semplice parroco. Assieme a lui sono uccisi un anziano contadino e un ragazzo sedicenne. Rutilio Grande, con la sua vita accanto ai contadini, era visto come colui che li spingeva alla lotta politica e sindacale; dunque era considerato un pericolo per gli interessi degli agrari.
Sin dal suo primo arrivo a San Salvador, come vescovo ausiliare, Romero era entrato in rapporto di collaborazione e sintonia con padre Rutilio. Lo considerava un vero uomo di Dio, un pastore autentico, un testimone della fede. L’assassinio di padre Rutilio è pertanto un fatto sconvolgente per l’arcivescovo: per la prima volta la violenza del potere lo tocca nei propri affetti più cari e lo costringe a interrogarsi a fondo sui motivi di tutto ciò. Romero veglia tutta la notte la salma del gesuita assassinato, attorniato da centinaia di campesinos.
Di fronte al cadavere dell’amico ucciso, Romero inizia a comprendere che il Corpo vivente di Cristo, i poveri, sono oppressi e uccisi da un potere che si presenta come baluardo della cristianità, ma che in realtà è inumano e anticristiano. Nell’omelia funebre parla della liberazione che la Chiesa offre e che il padre gesuita assassinato aveva cercato di trasmettere ai propri parrocchiani, una liberazione che si basa sull’amore e che ripudia ogni azione violenta e rivoluzionaria. Romero insiste poi su ciò che ha guidato l’attività pastorale di Rutilio Grande, ossia l’amore per il popolo che gli è stato affidato. E anche in questa omelia non mancano i riferimenti a Paolo VI.
La scoperta di precise responsabilità politiche ed economiche, alla base della diffusa situazione di miseria e delle violenze, lo porta sempre più decisamente a scontrarsi con il Presidente della Repubblica, con il governo e con i potentati economici. I sacerdoti e i religiosi di San Salvador, che fino ad allora erano stati per lo meno tiepidi nei confronti del nuovo arcivescovo, ora si stringono attorno a lui, riconoscendolo come propria autorevole guida.
Oscar Romero diviene così la voce del suo popolo, la voce dei senza voce.
La scelta della nonviolenza
Secondo Romero il dramma del Salvador ha origine nella diffusa ingiustizia sociale, che ha ridotto in miseria la popolazione. Solo con leggi giuste, applicate in modo imparziale, e nel rispetto dello Stato di diritto, è possibile risolvere la crisi in cui versa il Paese. Compito della Chiesa è difendere la dignità dell’uomo, che è stato fatto a immagine di Dio. In Salvador secondo Romero è presente una violenza istituzionalizzata, che è supportata da una violenza repressiva. Accanto a queste vi è la violenza rivoluzionaria, che ha le proprie radici in una situazione di oggettiva ingiustizia sociale. La violenza rivoluzionaria, la lotta disperata e violenta di uomini oppressi, è il prodotto della violenza istituzionalizzata. In America latina, e anche in Salvador, per opporsi all’ingiustizia legalizzata, alcuni credenti, e anche dei sacerdoti, scelgono la strada della lotta armata, rifacendosi alla Populorum progressio di Paolo VI, in particolare là dove si dice:
«E tuttavia sappiamo che l’insurrezione rivoluzionaria – salvo il caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del Paese – è fonte di nuove ingiustizie, introduce nuovi squilibri e provoca nuove rovine. Non si può combattere un male reale a prezzo di un male più grande».
Per Romero le condizioni che rendono possibile una rivolta armata, come previsto dall’inciso nel testo di Paolo VI, sono inesistenti nella realtà, anche e soprattutto in considerazione del fatto che le conseguenze sarebbero devastanti soprattutto per la popolazione. Nello stesso tempo è cosciente del fatto che, finché non si rimuove l’ingiustizia, è estremamente difficile realizzare condizioni di pace. Si tratta dunque, secondo l’arcivescovo di San Salvador, di trovare un’altra strada per risolvere i problemi del Paese.
La scorciatoia della violenza, scelta dalle forze della sinistra rivoluzionaria, per Romero è moralmente inaccettabile; non fa altro che aumentare i problemi e offre il pretesto per la repressione di tutto il dissenso da parte delle Forze di Sicurezza. Di fronte al dilagare della violenza, dei rapimenti, della tortura, l’arcivescovo, basandosi sul testo evangelico, pone come riferimento assoluto il “Tu non uccidere”. Non può essere artefice di pace chi ha nel cuore il risentimento, l’odio, la violenza. La soluzione dei mali infatti è nella conversione del cuore, nell’assunzione di atteggiamenti di rispetto, di dialogo, di collaborazione, di nonviolenza. Il concetto che riassume tutto ciò, e che Romero deriva da Paolo VI, è quello della “civiltà dell’amore”. Ancora nella Evangelii nuntiandi, in particolare nel cap. 37, Romero trova una conferma alla propria posizione di rifiuto di ogni forma di violenza, anche di quella rivoluzionaria che vuole abbattere le strutture ingiuste. Anche il tema che Paolo VI sceglie per la Giornata Mondiale della Pace del 1978, “No alla violenza, sì alla pace”, trova il pieno consenso dell’arcivescovo di San Salvador. Oscar Romero è un vescovo che intende proporre a tutti la strada indicata dal Vangelo, la strada dell’amore e della nonviolenza. Le sue omelie domenicali, in cui elenca i nomi degli assassinati, degli scomparsi, dei torturati, degli arrestati, che aumentano sempre più, sono tutte condanne della violenza e appelli alla nonviolenza e alla conversione. Per questo si incontra più volte anche con esponenti della guerriglia, per convincerli ad abbandonare la strada della violenza.
Uomo di Dio, uomo di Chiesa, uomo del popolo
Mons. Ricardo Urioste, che fu vicario episcopale di Romero, ha indicato in tre le caratteristiche dell’arcivescovo di San Salvador.
Romero è stato un uomo di Dio, un uomo dedito alla preghiera. La sua anima era profondamente radicata in Dio per mezzo della preghiera. Il segreto più vero del suo essere fedele al Vangelo fino al martirio è stata la comunione con Gesù, l’incontro profondo, intimo e mistico con Cristo. In Gesù, Dio appartiene alla nostra storia, è veramente e realmente con noi, ci sostiene e ci infonde coraggio. Dalla profonda intimità con Cristo, Romero traeva la forza di dare e annunciare speranza a tutto il popolo. L’intimità con il Dio trinitario è stata la fonte pura che ha alimentato l’azione pastorale e la predicazione profetica di Romero, che si abbandonava totalmente nelle mani di Cristo morto e risorto, presente nella storia, nella Chiesa, nei poveri. Il passaggio dalla presenza sacramentale di Cristo a quella della sua identificazione nei poveri e negli oppressi è per Romero una questione di fede.
Trascendenza non è quindi rifugiarsi nel mondo della spiritualità disincarnata, ma vivere in Cristo, sacramentalmente accolto nella propria esistenza, per testimoniarlo e riconoscerlo nel volto dei poveri e dei sofferenti. Oscar Romero si è unito al sacrificio di Cristo, ha mescolato la sua esistenza con quella del maestro amato. Egli si è offerto fino alla fine per testimoniare la sua fede incarnata nel servizio della Chiesa e dei poveri. Per Romero la salvezza viene dunque da un cuore trasformato dal Cristo che libera l’umanità dalla schiavitù del peccato. L’arcivescovo di San Salvador comunicava con forza il significato profondo della passione e morte di Cristo come azione liberatrice di Dio che sradica e perdona il peccato del mondo.
Si tratta della riconciliazione dell’umanità peccatrice con il Padre attraverso la vita del Figlio fatto uomo e sacrificatosi in totale obbedienza per la salvezza del mondo. Poi per Oscar Romero tale liberazione dal peccato tocca le strutture storiche e concrete. Cristo è un giusto ucciso, un martire e una vittima sacrificata alla logica del potere e dell’interesse politico-economico, che accetta tutto per obbedienza al padre. Romero leggeva nella passione di Cristo le sofferenze del suo popolo, a cui dare coraggio a partire dal mistero della resurrezione, che dà luce alle croci umane che sembrerebbero senza via d’uscita. Il popolo poteva amare e sperare, lottare e cercare giustizia poiché vi era un incrollabile senso che dava forza e significato a tutto questo: Cristo morto e risorto, che ci chiama alla costruzione del Regno nella storia.
Oscar Romero denuncia la radice profonda di ogni idolatria, ossia il rifiuto di Dio e dei fratelli, il primato dato al potere e al denaro, l’assolutizzazione dei beni privati. Da qui il richiamo alla conversione rivolto all’oligarchia.
Romero fu un vero uomo di Chiesa. Il suo motto episcopale “Sentir con la Iglesia” indica proprio questo. I documenti del Concilio e di Medellín, il magistero dei vari Pontefici furono sempre la sua guida. In essi e nel Vangelo trovò progressivamente le motivazioni per essere sempre difensore degli impoveriti e dei massacrati. Romero è cosciente del fatto che in Salvador la Chiesa viene violentemente perseguitata poiché era avvenuta una reale storicizzazione della fede nel mondo dei poveri e degli oppressi. Ciò aveva portato ad una più viva coscienza del peccato in quanto offesa a Dio che si concretizza nella morte dell’uomo e nella violazione dei suoi diritti fondamentali. Peccato infatti è stato ciò che ha portato alla morte del Figlio di Dio e peccato è oggi ciò che dà la morte ai figli di Dio. La Chiesa annuncia la vita per tutti, si rivolge a tutti, di tutti chiede la conversione, ma poi in modo particolare si mette vicino ai poveri come comunità serva del Signore. L’annuncio gioioso della Chiesa era quello della definitiva vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte e, di conseguenza, sulle ingiustizie e sulle violazioni dei diritti di ogni persona. Romero non predicava soltanto la salvezza delle anime, ma anche quella della storia: da qui derivava l’impegno della Chiesa a continuare l’opera di Gesù nella realtà storica, attraverso l’annuncio del regno di Dio, la denuncia del peccato personale e strutturale, la chiamata alla conversione. La chiamata della Chiesa a farsi carico della realtà aveva il suo prezzo e lo pagarono col sangue Oscar Romero e molti tra sacerdoti, catechisti, delegati della parola, semplici fedeli.
Romero è stato uomo del popolo, difensore e servitore dei poveri. La realtà concreta, fatta di lacrime e di sangue, diviene un dato teologico: in essa Romero legge, alla luce della fede, la presenza del male da combattere e quella del Cristo, servo sofferente, vivo nei poveri e nei crocifissi della storia, da amare, da servire, da soccorrere. L’anelito alla giustizia e alla riconciliazione nel Paese divenne così aspetto primario nel suo cuore. Dio ci chiama a servirlo in un culto vivente al fianco delle vittime di ogni tempo. La vera adorazione nei confronti di Dio è farsi buon samaritano come Gesù, il Figlio, venuto a portare l’amore misericordioso del Padre verso i piccoli, i poveri, i feriti nel corpo e nello spirito, gli scartati, direbbe papa Francesco.