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Un assaggio
Poesie e prose “tra pietà e furore”

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Ricordi di guerra

«I miei ricordi di guerra. E il mio sacerdozio nella guerra. Quando braccato dai fascisti per una predica nel duomo di Milano: una predica sull’aspirazione dell’uomo verso la luce. Era il vangelo del cieco di Gerico che gridava verso il Cristo, perché gli usasse pietà. E Gesù che gli chiede: “Cosa vuoi che ti fac­cia?”. E il cieco a supplicarlo: “Signore, che io ve­da …”. E io lanciato, con il vangelo in mano, dall’al­tare: proteso sulla folla (che domeniche!) a dire, a urlare: “Signore, che tutti vedano!”. Che vedano i grandi e i fanciulli, giovani e anziani … Che veda la Chiesa, che veda il governo… Perché se un cieco conduce un altro cieco… Eravamo in piena guerra, in quell’interminabile e assurda guerra./ Così, la porta della sacrestia del duomo è stata pian­tonata. Ma un sacrista è venuto sull’altare a dirmi di mettermi in salvo, a messa finita. Allora, mescolato al­la folla, sono uscito per una porta laterale e sono corso verso la periferia a nascondermi presso una casa di amici: attraversando la città sepolta nella calura di lu­glio. E c’era gente, pochissima, come sono i pomeriggi estivi e domenicali di Milano, sdraiata al fresco nel parco. Poi, fra le macerie, i bambini che giocavano; e un profumo acutissimo di tigli che riempiva la casa…/ Dove, appena entrato e saputa ogni cosa, gli amici – tanto per incoraggiarmi – mi danno quello che hanno, in attesa di prepararmi un po’ di desinare. E ­mi offrono una meravigliosa pesca. Ancora più me­ravigliosa perché eravamo in tempo di guerra; e io, così trafelato… Poi quei bambini sulle macerie; e quel profumo di tigli; e il mio stato d’animo: stanco per quella guerra che non finiva mai. Così, appena addentata la pesca, ecco che mi viene ancora di cantare:/ Senti che è di troppo/ il sapore di una pesca/ in questa povertà/ di case diroccate;/ senti che non ti è lecito/ provare questo dolciore/ d’anima emigrata/ dalla strada ferita/ della tua umanità./ Sposato hai/ una pena/ di non sentire mai/ dolcezza alcuna/ che non sia di tutti;/ ed ora ti tenta/ questo profumo/ di pesche e di aranci,/ e ora ti seduce/ questo languore di tigli,/ e ora vorresti/ andartene in pace/ in quest’orlo di città,/ in queste ghirlande/ di bimbi a dimenticare./ E invece è tuo soltanto/ il grido della città/ disfatta sotto il sole,/ e tu solo/ puoi rianimare i corpi/ abbattuti ai piedi/ delle piante/ nell’afosità dell’estate./ Ah, tu non puoi/ concederti a queste/ momentanee paci./ Tu sei la possibilità/ di una viva/ solitudine,/ e il tuo sacerdozio/ è un’oasi/ ove essi hanno il diritto/ d’approdare/ dalle loro fatiche».
(D.M. Turoldo, Amare, Paoline, Cinisello Balsamo 1986, pp. 83-85)

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Sola compagna

Io invece ogni giorno incontrato
a qualche orlo di piazza,
a uno sbocco di strade.
Nel gorgo, sempre,
a cercare un pane per chi ha fame,
a portare lume,
nella notte a tutta la città.

Straniero agli stessi fratelli
sola compagna una fede
che è mistero a me stesso.

(D. M. Turoldo, Udii una voce, Mondadori, Milano 1952, ora in Id., O sensi miei… Poesie 1948-1988, Rizzoli 1990, p. 151)

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Torniamo ai giorni del rischio

Torniamo ai giorni del rischio,
quando tu salutavi a sera
senza essere certo mai
di rivedere l’amico al mattino.

E i passi della ronda nazista
dal selciato ti facevano eco
dentro il cervello, nel nero
silenzio della notte.

Torniamo a sperare
come primavera torna
ogni anno a fiorire.

E i bimbi nascano ancora,
profezia e segno
che Dio non s’è pentito.

Torniamo a credere
pur se le voci dai pergami
persuadono a fatica
e altro vento spira
di più raffinata barbarie.

Torniamo all’amore,
pur se anche del familiare
il dubbio ti morde,
e solitudine pare invalicabile…

(D. M. Turoldo, Il grande male, Mondadori, Milano 1987, ora in Id., O sensi miei… Poesie 1948-1988, Rizzoli 1990, p. 513)

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La prima pace: ristabilire i giusti rapporti con le cose

«Ristabilire i giusti rapporti con le cose è il più grande e urgente impegno dell’azione di oggi: impegno che coinvolge tutti. Tutti sentiamo quanto la nostra civiltà sia sbagliata, soprattutto perché fondata sopra un rapporto sbagliato con le cose. […] Impossibile che ci sia la pace sulla terra fin quando non è risolto il problema del rapporto dell’uomo con le cose. Se non sei in pace con la terra non sarai in pace neanche con te stesso.

La prima di tutte le paci è che tu sia in pace con gli elementi: un uomo in armonia! Ogni pace ti sarà interdetta, sia con te che con gli altri, se tu non sei in pace con tutta la natura. Sarebbe come un partire col piede sbagliato.

«In terra pax», non vuol dire soltanto pace sulla terra; ma vuol dire prima di tutto pace con la terra. Da questo rapporto sbagliato derivano ‒ abbiamo detto ‒ conseguenze enormi.

Non per nulla la Genesi dice, al capitolo II dove appunto è descritta questa antropologia biblica, che Dio fece l’uomo e lo pose nel centro del giardino “e a lui affidò tutte le cose affinché le coltivasse e le custodisse”. Che vuol dire: non diritto di fare quello che vuoi, ma dovere di curare le cose come creature, che non sono solo oggetto ma soggetto di amore e di vita. Da dove deriva che l’uomo non è un proprietario assoluto della creazione: che cioè non esiste il diritto di proprietà privata; e tanto meno è un despota del creato.

Suo compito è di coltivare e custodire. Non dunque un rapporto di dominio, ma di amicizia. O, se volete, si parli pure anche di dominio, ma come del dominio del sole sulla terra che è un dominio di vita e non di morte; e anzi più splende, più la vita si sprigiona. È vero, il sole domina la terra; anche l’amore è un dominio, se si vuole, ma è appunto un dominio d’amore.

Quando si legge il comando di “soggiogare la terra” questo va interpretato nel senso che tu la coltivi e la custodisca. Solo così potrà aver fine questo micidiale dispotismo di un uomo che si crede in potere di manomettere ogni cosa. Civiltà nucleare, ingegneria genetica, mani scatenate sulla vita, secondo il principio che sostiene: “tutto ciò che è possibile è anche lecito”. Donde questa furia di esperimenti allo stato brado. Forse non facciamo che ingigantire la nostra morte. […]

Non è a caso che la nostra poetica nasce da una cella di frate, dal Cantico delle creature di Francesco, dove è celebrato un rapporto addirittura di parentela e di fraternità con le cose (cfr. in proposito F. Chenique, Il simbolismo del Cantico delle creature, ed. Cens, a cura del nostro Centro Studi). Un cantico che si dice delle creature, non perché le enumera tutte, ma perché si fa voce di tutte le creature; e non nel senso sentimentale e romantico, ma in senso liturgico, di vera comunione con le cose: perché io sono la coscienza di queste cose e perciò devo sentirmi in uno stato di perfetta unione con esse. Il cantico di frate sole è la vera interpretazione di quell’antropologia biblica e del messaggio cristiano di cui parlavo all’inizio; un cantico che dovrebbe essere la fonte ispiratrice di ogni movimento ecologico. Tanto è vero che non ascoltando da sempre questo messaggio, il nostro è un camminare fatale verso la morte, e prima verso la dissoluzione sociale; proprio perché canto del cuore libero, canto della povertà e della bellezza salvatrice».
(in D. M. Turoldo, Lettere dalla Casa di Emmaus, a cura di A. Levi, CENS, Cernusco sul Naviglio 1992, pp. 122 125)

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E dunque

Anche se il Nulla ti circonda come un oceano,
anche se mai la Nube si scioglierà
e nessuno mai a occhio nudo
ti potrà vedere,
ti raggiunga il canto del cuore,
il canto colmerà l’abisso.

* * *

La cosa che vale è che Tu ci conosci
come noi non ci conosciamo:
Tu, luce della nostra coscienza.

Anche di amarti a noi è negato
se Tu non semini in noi l’amore,
sola fine della tua e nostra solitudine.

(D. M. Turoldo, Canti ultimi, Garzanti, Milano 1991, p. 181)

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