STORIE BRASILIANE
GUARDANDO AL NATALE
Antonio Vermigli
Da pochi giorni sono rientrato dal Brasile dove il tempo non solo sembra essersi fermato ma addirittura si profila un ritorno lontano nel tempo e nello spazio. Si respira un’aria di blocco dove ogni parola che non è funzionale al nuovo sistema Sergio Moro [1], Jair “Messias” Bolsonaro [2] è guardata con sospetto e forte giudizio. I Movimenti popolari sono ancora scioccati e spaesati di fronte a tanta protervia del nuovo potere.
Una passeggiata nella periferia
Una mattina insieme a Emerson, educatore del centro San Martino de Porres di San Paolo, decidiamo di fare una passeggiata nella periferia est, dove la povertà si è moltiplicata in questi ultimi due anni, dopo il golpe istituzionale contro la presidente eletta Dilma che ha causato la chiusura dell’80% dei progetti sociali del governo. Lungo i muri della ferrovia sono nati interminabili accampamenti di legno, cartone e plastica di due metri per uno, quanto è largo il marciapiede, dove il vecchio e il nuovo popolo della strada si ripara la notte.
Incontriamo José, nato nel nordest 69 anni fa. A 21 anni si è trasferito a San Paolo dopo essersi spaccato la schiena fin da piccolo lavorando da schiavo in una grande fattoria. Racconta che è arrivato senza saper né leggere né scrivere, riconosceva solo i soldi, pur avendone maneggiati pochi, attraverso i quali aveva imparato un po’ a contare. Iniziò a lavorare il giorno e a studiare la notte, fino alla terza media.
Da dodici anni vive per strada, la notte si ritirava in un dormitorio pubblico ma venti mesi fa è stato chiuso per mancanza di fondi. Grazie alle pratiche, che l’assistente sociale del Centro lo ha aiutato a fare, è riuscito ad avere una pensione sociale, insufficiente per pagare l’affitto di una stanza e bagno. Afferma con orgoglio che non è un mendicante, che è cosciente della sua condizione, evidenziando che tutti nel Brasile dovrebbero avere una vita degna, un alloggio, il diritto al cibo e alla salute, perché il Brasile è un Paese ricco. Si è abituato alla vita della strada, racconta che nel tempo che passa al Centro oltre a vedere la Tv, giocare a biliardino, fare piccoli lavori con la carta, parla con i suoi compagni della carenza dei servizi sociali, denunciando che il comune e lo Stato non hanno nessun interesse e nessuna iniziativa in relazione alla loro condizione.
Due volte abbandonato
Dalla strada ci spostiamo nel Centro dove Emerson lavora (come Rete di Quarrata sosteniamo il Centro attraverso un progetto). Gli addetti stanno distribuendo il pranzo principale del giorno, ci sono circa 500 persone, alcune decine di donne con bambini, tutti ordinatamente in fila: le donne con bambini usufruiscono di una via preferenziale.
Ognuno è chinato sul proprio piatto, il silenzio la fa da padrone, solo rumori di spostamento di stoviglie e pentole enormi.
Incontro Roberto seduto al tavolo, ha terminato di mangiare da poco, dopo qualche sbadiglio mi chiede di sedermi, inizia subito a parlare raccontando la sua vita. L’abbandono della madre in un collegio quando era piccolo, fino a 18 anni, quando il giudice intimò alla madre di andare a prenderlo perché maggiorenne, ma non lo portò a casa, non lo volle, lo lasciò da una parente con la quale si era accordata. Racconta: “In quella casa non stavo bene, per me erano estranei, mi sentivo escluso, così decisi di andarmene e vivere in strada”, dove continua a vivere. “Questo abbandono ha condizionato e rovinato la mia vita. Non ho ricevuto nessun aiuto psicologico, questa è una ferita che mi porterò sempre dentro. Qui incontro persone come me, che hanno sofferto, che hanno perso il lavoro, conversiamo, mangiamo e ci raccontiamo ciò che viviamo e vediamo ogni giorno”. Roberto si alza e mi saluta inserendosi raggiungendo pochi metri più in là un piccolo gruppo di amici.
Il cartonero
Si avvicina a noi Gustavo avendo notato che siamo stranieri, a domanda gli rispondo: italiani. Con il dito indica subito un gruppo di persone: “Quelli sono tutti di origine italiana, vado a chiamarne qualcuno”. Lo fermo dicendogli che preferivo conoscere la sua storia. Mi guarda sorpreso ma felice. Ha 26 anni, apparentemente è forte, racconta che è un raccoglitore di carta (catadores), uno dei tanti che la notte pulisce la città dai cartoni che i commercianti lasciano sui marciapiedi.
“Sono felice di pulire la città ma, il nostro lavoro non è riconosciuto. Siamo mal visti, giudicati, esclusi, la maggioranza delle persone pensano che siamo dei vagabondi. Non si domandano al mattino quando escono da casa perché è tutto pulito. Vorrei che chi ci giudica per una notte si mettesse al nostro posto: “un carretto da tirare su e giù per la città, fermarsi, caricare, legare, fino a riempirlo, spesso con un carico più alto di me anche di un metro”.
“Non siamo vagabondi”
Improvvisamente si alza, penso che se ne vada, invece mi invita fuori dal Centro per farmi vedere il suo carretto. “Vedi questi pezzi di copertoni di macchine messi uno sopra l’altro e legati a due assi di legno, servono per frenare nella discesa quando siamo carichi, altrimenti non avrei forza sufficiente per tenere il carico e ne sarei travolto, devo cambiare i pezzi di gomma almeno una volta la settimana. Non siamo vagabondi!”. Mentre lo afferma con severa autorità guarda alcuni suoi compagni e dice: “Ognuno di loro ha il suo carretto, li vedi come sono ben parcheggiati lungo la strada, siamo una bella squadra”.
Rientriamo è arrivato il suo turno (sono 6 i turni del pranzo… 500 persone) ci invita a mangiare con lui, accettiamo. Vado a comunicarlo a Francisco, l’educatore si unisce a noi. Riso, fagioli, pollo e insalata, piatto unico. Ottimo per noi, figuriamoci per Gustavo, un piatto che sembra un monte, il mangiare va in salita. Dopo averlo terminato si alza e ne chiede ancora, torna con metà piatto pieno. Infine un budino. Dopo qualche risata ci salutiamo, Gustavo va a riposare, sorridente ci dice: “Questa notte sarà lunga e faticosa”.
Pensando al buon Samaritano
In questo tempo, in Italia si parla tanto di frontiere: la frontiera chiude, è sempre e solo uno sbarrare il passo. Eppure come Comunità Europea siamo stati capaci di unirci coltivando la cultura della diversità. La diversità è un valore e la dobbiamo salvaguardare, come la biodiversità in natura. Le nostre differenze sono una ricchezza ma, la diversità estremizzata diventa una spada brandita contro l’alterità. Diventa un solco invalicabile.
Quando comprenderemo che la chiave di ogni uomo e ogni donna si trova negli altri, che è il contatto con il prossimo che ci fa capire realmente chi siamo? Per questo possiamo solo maturare quando sentiamo che è più grande la nostra preoccupazione per gli altri che non per noi stessi.
Nei giorni delle sue conferenze dei primi di novembre in Italia, Frei Betto ci ha ricordato che il Samaritano di cui ci racconta Gesù non dà lezioni di buona educazione, ma di amore.
Davanti all’uomo in difficoltà non fa come il sacerdote o il levita, i quali mettono avanti i loro impegni religiosi, ma si china su di lui per vedere dove è la sua ferita. Un fratello.
I muri estromettono e rinchiudono
È così difficile pensare che l’altro sia così prossimo a noi? Ognuno di noi è imparentato con il mondo, carne della stessa carne, eppure viviamo sempre di più rafforzando quella scorza di individualismo e di egocentrismo che è l’origine di tutte le nostre sofferenze. La vita non è fatta per chiuderci nella nostra introspezione ma, per farci sentire che condividiamo con tutti gli stessi bisogni; ognuno di noi vuol sentirsi capito, ascoltato, amato. Il nostro vivere quotidiano, così cerebrale ha bisogno di spazi nuovi, appartati, per riscoprire la nostra umanità e uscire così dal guscio delle paure e delle differenze.
La parabola del Samaritano ci chiede questo. Quando la vita di qualcuno è ferita, siamo disponibili a caricarcela sulle spalle? Quando siamo in difficoltà, sappiamo di poterci affidare alle braccia calde di un fratello o una sorella? In entrambi i casi l’aiuto più vero consiste nel sentire che non siamo soli. Diamo forza all’amore per spingere il carro del mondo.
I muri creano separazione non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Non nella geografia ma nella storia; soprattutto il muro non solo estromette il forestiero, l’emarginato, il muro chiude dentro il privilegiato e lo condanna all’asfissia.
L’attenzione per i poveri non può essere un fatto occasionale, sporadico, deve essere una priorità politica. Ad ognuno la propria riflessione.
Antonio Vermigli
Direttore de “in dialogo”, trimestrale della Rete Radié Resch.
La rivista aderisce alla Rete dei Viandanti.
Note – – – – – – – –
[1] Sergio Moro, è il giudice che senza nessuna prova ha condannato Lula, l’uomo che il giorno dopo l’elezione di Bolsonaro a presidente è andato a casa sua, uscito ha dichiarato che aveva accettato l’incarico di Ministro della Giustizia e della Sicurezza, una contraddizione mai esistita in Brasile, era un gioco preparato senza il quale Lula sarebbe diventato presidente del Brasile per la terza volta.
[2] Jair Bolsonaro, da non scambiare con la famosa ala destra dell’Inter -JAIR- dei tempi di Helenio Herrera che vinse tutto, in Italia, Europa e nel mondo, inconsistente capitano dell’esercito consegnato alla politica, deputato inesistente nella storia del parlamento brasiliano, adesso chiamato in Brasile: Bolsoleone!
“Messias” è il soprannome acquisito dopo la sua andata a Gerusalemme a farsi battezzare sul fiume Giordano in campagna elettorale dopo avere abbracciato la fede evangelica per avere il sostegno della “Bancata Evangelica” che conta 90 tra senatori e deputati.
Mi sembra necessario fare riferimento alla campagna elettorale che ha visto l’affermazione di Bolsonaro, un parlamentare di destra ed ex-militare relativamente noto. Dicono amici brasiliani democratici – che ora si sentono in pericolo più che in difficoltà – che pochi mesi prima della campagna e per tutto il corso della propaganda era presente Steve Bannon, l’uomo di fiducia di Trump che ha acquistatoall’inizio dell’anno nell’Appenino laziale l’abbazia di Trisulti per farne una scuola politica (per i populisti). Ha mezzi a disposizione (nelle previsioni c’è anche un grattacielo a Londra della post-Brexit) e in Brasile ha lavorato capillarmente sui social. I gilet gialli francesi certamente gli debbono sembrare un’opportunità. Il caso Brasile è un esempio di cui tenere conto. In Italia abbiamo già avuto Gelli.