PER UNA TEOLOGIA QUEER
Siamo tutti diversi, il libro intervista di Cristina Guarnieri e Roberta Trucco a Teresa Forcades, uscito per i tipi di Castelvecchi nel settembre dello scorso anno, dovrebbe uscire dalla destinazione a una nicchia di lettori per essere letto e meditato da molte/i. La monaca benedettina di origine catalana è ancora, da noi, relativamente poco conosciuta e, nella vulgata, passa per una campionessa di “trasgressività” teologica. Mentre a leggerla ci si sorprende per la qualità dell’aria che investe i polmoni; si ha l’impressione di ritrovare il respiro profondo di un cattolicesimo originario, genuino, conforme all’etimo del proprio nome.
A fare scandalo è soprattutto la scelta di Forcades di definire “queer” la propria teologia. “Queer” è un termine che ha l’originario significato di “attraversamento”, “passaggio”, “transizione”. Poi ha assunto l’accezione di “bizzarro”, “strano”, “stravagante” ed è stato impiegato in senso spregiativo per indicare gli omosessuali. In seguito l’espressione fu rivendicata da alcuni attivisti impegnati nella rivendicazione dei diritti degli omosessuali. Successivamente la voce “queer” è stata ricondotta all’universo delle tematiche relative al Gender per indicare quelle persone il cui orientamento sessuale o di identità di genere differisce da quello binario, eterosessuale. Forcades lo utilizza per definire una teologia che si vuole fuori da stereotipi e schemi precostituiti. Una teologia che si autointerpreta come una forma di cocreazione, ovvero di partecipazione alla creazione incessante con altri strumenti.
L’espressione “queer” è impiegata da Forcades anche per esprimere la convinzione, gravitazionale nel suo pensiero e nel suo modo di affrontare la vita, del carattere unico e originale di ciascun individuo e “l’affermazione dell’impossibilità di utilizzare, nell’ambito della persona, qualsivoglia categoria, che sia di genere, di classe o di razza.” La convinzione che “Le categorie che classificano l’essere umano sono, per così dire, opacità, che non consentono di vederlo nel suo tratto di originalità.”
Nel concetto di queer Forcades trova un’idea della persona intesa come costruzione, dinamismo, come un’identità che non è fissa e non risponde ad affermazioni quali, ad esempio: “Io mi definisco così e ho una stabilità che dura per sempre”. Si avvicina al concetto teologico di homo viator, per il quale la persona è essenzialmente peregrina. (…) Queer significa doversi continuamente riorientare, riscoprire. La parola più semplice e più forte della teologia classica che procede nella stessa direzione è, a mio parere, co-creazione. La creazione non è mai conclusa e non è Dio a doverla portare a termine, bensì noi: si tratta di una nostra responsabilità. Questo vale per la creazione nei suoi aspetti materiali e naturali, ma vale soprattutto per la creazione rappresentata da ciò che noi stessi siamo. Dio ci ha dato la possibilità di essere come Lui (o Lei). Non è un dono da poco. Non ci ha creati già come Dio, perché per esserlo ci si deve creare in modo originale, ossia da sé. E, per di più, assumendosi un rischio poiché, come dice Simone Weil nel suo ultimo libro La prima radice, il rischio è una delle necessità della persona umana. La prima è mangiare, l’altra è rischiare. Senza affrontare il rischio, la libertà di crearsi come persona, non si può essere umani.”
Nel libro Teresa racconta in sintesi la sua biografia, attenta anche alle “casualità” simboliche e significative: la nascita a Barcellona in via della Libertà, nel quartiere della Grazia. Fu un amico a farle notare la curiosa coincidenza, in sintonia profonda con il tema fondamentale degli studi filosofici e teologici di Teresa, ovvero “l’indissociabilità della libertà dall’amore”.
Cresciuta in una famiglia estranea alla pratica religiosa e in cui la Chiesa cattolica era considerata con diffidenza per le sue connivenze col fascismo e il franchismo, Teresa scopre il Vangelo all’età di quindici anni durante un ritiro organizzato dalla scuola. L’impatto dell’incontro con la figura di Gesù è enorme e la induce a frequentare gli incontri di catechismo. Nello stesso periodo comincia la sua attività di volontariato in una parrocchia di Barcellona il cui parroco si occupa di garantire i basilari servizi di igiene e un pasto quotidiano a immigrati e senzatetto. “Questo aspetto” racconta Teresa “per me fu di grande valore anche in seguito : era uno sguardo sulla persona bisognosa che riconosceva la sua piena umanità e metteva sullo stesso piano il bisogno di riconoscimento umano e il bisogno di nutrirsi – quest’ultimo, certo, è una necessità primaria, perché se uno non mangia poi muore, ma non è l’unica. Spesso le persone che vivono in strada possono rinunciare a un alimento pur di ottenere lo sguardo dell’altro, uno sguardo che non le umili.” In seguito Teresa studierà medicina, ma proprio quando le si apre la possibilità di una carriera da medico matura la sua vocazione monastica e teologica. Nel frattempo gira il mondo, conosce in India le sorelle di madre Teresa, fa visita a un amico missionario in Giappone. Incomincia poi il noviziato, durante il quale si innamora ardentemente di un giovane medico. Attraversa un periodo di crisi al termine del quale decide di rinunciare a quella relazione per prendere i voti. Sarà una monaca benedettina molto sui generis, che, in accordo con la madre superiora, sospenderà per lunghi periodi la clausura per poter perfezionare con due dottorati gli studi in medicina e in teologia e per potersi dedicare all’attivismo politico.
Il pensiero teologico di Teresa Forcades si è nutrito alla fonte della Scrittura, di giganti della tradizione come Agostino e Tommaso ma si è ispirato anche alla teologia femminista (fondamentale l’incontro con Elisabeth Schüssler Fiorenza) al pensiero di Marx e alla psicanalisi di Lacan.
La prospettiva teologica di Teresa Forcades ha un punto di partenza antropologico e un punto di arrivo. C’è un cammino che ogni persona è chiamata a percorrere per attuare il suo potenziale umano, per giungere alla propria personale pienezza, per diventare adulta. In termini meno psicologici e più schiettamente teologici Teresa parla di cristificazione, di divinizzazione, di progresso nella libertà e nell’amore. Anche, di rinascita dall’acqua e dallo spirito. Alla nostra radice non c’è un’identità già data ma un vuoto interiore che è una possibilità d’essere. E’ questa indeterminazione che fa appello alla nostra libertà e responsabilità a essere definita come “queer”. E’ la paura della libertà che ci induce spesso a ripiegare su una soggettività infantile, dipendente. “L’immagine è qualcosa che Dio ci dà e che non possiamo mai perdere, la nostra identità di base, quel che noi siamo: siamo infatti, per usare un’espressione di Agostino, capaci Dei, il che significa che siamo in grado di amare, di essere liberi e di conoscere. Per trasformare la nostra immagine in somiglianza dobbiamo assumerci la responsabilità di noi stessi e realizzare il nostro potenziale. Tra immagine e somiglianza c’è uno spazio che è quello della libertà e della responsabilità.
Teresa ha dedicato la sua tesi di dottorato al tema della Trinità. Nella comprensione teologica di questo centralissimo concetto della fede cristiana, più si afferma l’individualità delle persone, più forte sarà la loro unità. Questo mistero è anche interlocutorio per la convivenza umana e per la vita delle persone:
“Come non avremo un’unità familiare indebolendo il singolo individuo, così non avremo un individuo più forte indebolendo il lagame con la sua comunità. Questa è la grande sfida teologica e umana cui siamo confrontati: comprendere che solo difendendo la scelta individuale – intesa non tanto come diritto, quanto come dovere di esprimere se stessi nella propria differenza – saremo capaci di dare orientamento alla famiglia e alla società.” A questo proposito Teresa riferisce di un suo iniziale colloquio con la sua (molto illuminata) badessa al momento del suo ingresso in monastero. Alla domanda circa le sue aspettative relative alla vita comunitaria, Teresa aveva risposto: “Mi auguro di adattarmi alla vita della comunità”. La badessa rimase delusa e soggiunse: “Apprezzo il tuo desiderio di adattarti, ma sai una cosa? Ho un sogno per la nostra comunità. Vorrei che le persone che ne fanno parte, con differenti estrazioni culturali, diversi modi di pensare e diverse esperienze di vita, possano stare insieme per vent’anni senza arrivare a somigliarsi e a pensare tutte allo stesso modo. Desidero che la nostra comunità possa essere un luogo in cui persone differenti riescano a far emergere l’originalità che Dio ha donato loro, quella peculiarità che non può essere copiata da nessun altro e che è parte strutturante dell’individuo. Ecco, credo che sia questo ciò che Dio si aspetta da noi.”
Riguardo alla tematica del Gender, ovvero al rapporto tra sessualità biologica e identità di genere, Teresa si esprime con cognizione di causa come medico consapevole delle diverse dimensioni già proprie del sesso biologico (cromosomico, gonadico e genitale) e come pensatrice e teologa che si pone la questione della diversità come interlocuzione e appello. La presenza di persone che quanto alla loro identità di genere e al loro orientamento non rientrano nella logica binaria consente di aprirci a una comprensione dell’amore che non si riduce alla complementarietà. L’amore trinitario non ha a che vedere con la complementarietà. Il Figlio non completa il Padre né lo Spirito Santo è complemento del Padre e del Figlio. Le tre persone sono distinte. Allo stesso modo Dio non crea per completarsi e la creazione non è un suo complemento. L’amore autentico, afferma Teresa, è pericoretico. Pericoresi significa che nell’amore trinitario, se io amo te, costruisco uno spazio intorno a te in modo che tu possa essere qualunque cosa tu voglia, qualunque cosa tu sia. Nessuno ti dona questo spazio se non per amore, riconoscere lo spazio che circonda l’essere dell’altro può accadere solo per amore. A proposito del matrimonio omosessuale Teresa afferma: “Il problema non è se il matrimonio sia etero o omosessuale, ma la qualità dell’amore che lo anima.”
Pur favorevole al matrimonio omosessuale, Teresa si è espressa in senso radicalmente contrario alla maternità surrogata, da lei considerata come una forma di mercificazione del corpo e come una violazione profonda del rapporto fondamentale tra il feto e la madre, rapporto che struttura la psiche del bambino e la sua vita relazionale a partire dal concepimento. La pratica dell’utero in affitto pretende di disporre a priori di questo spazio, stabilendo a tavolino di troncarlo definitivamente dopo i nove mesi di gravidanza.
Una parte non irrilevante della narrazione autobiografica è dedicata all’impegno politico che ha portato Teresa, col consenso della badessa e delle consorelle, a rompere la clausura per impegnarsi nel movimento costituente capitanato in Catalogna da Arcadi Olivares e di presentarsi alle elezioni. Nella visione politica di Teresa, centrale è l’idea di una democrazia partecipativa costruita dal basso e fondata capillarmente a livello di quartieri, sulla base di gruppi i cui membri non si scelgano sulla base di affinità ideologiche ed elettive, ma di semplice vicinato e siano impegnati nella vigilanza sull’operato dei rappresentanti politici e nella ricerca di soluzioni pragmatiche ai problemi concreti della convivenza sociale. Questa dimensione comunitaria, l’idea che siamo uniti agli altri anche se non li conosciamo o non ci sono simpatici è oggi molto latitante ma andrebbe, secondo Teresa Forcades, recuperata. Forte è anche la sua critica alla Comunità europea, definita un’unione antidemocratica.
Fortissima anche la critica al capitalismo, con particolare insistenza sull’obsolescenza programmata dei prodotti immessi sul mercato. Originale l’idea di una rivoluzione permanente che consiste, da parte dei cittadini, nel rimanere costantemente vigili e nell’esercitare senza interruzione il pensiero critico nella ricerca di alternative praticabili.
Questi alcuni dei temi toccati nel libro, che può essere in qualche modo introduttivo ai testi più specifici di Forcades alcuni dei quali già pubblicati in Italia.
Simonetta Giovannini