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UN DIVORZIATO PROPONE

L’annuncio che il prossimo Sinodo dei Vescovi  sarà dedicato ai problemi della famiglia ha riportato in primo piano il tema dei divorziati sposati. E’ un tema largamente dibattuto e affrontato anche da diversi gruppi della nostra Rete nonché dalla stessa Lettera dei Viandanti indirizzata alla Chiesa che è in Italia. Ben si colloca in questo contesto il contributo di Oliviero Arzuffi: un piccolo libro che, rivolgendosi a Papa Francesco, esprime con franchezza «che cosa pensa un divorziato risposato che ama la Chiesa e non intende abbandonarla, ma che non accetta esclusioni che violino la retta coscienza e si mettano in aperta contraddizione con la norma assoluta dell’amore che è il vangelo del Risorto» (p.9). E’ una riflessione accorata, scaturita da una dolorosa esperienza e nutrita dalla lettura della Scrittura, offerta «come interrogazione e proposta per i pastori della Chiesa” (p. 77).

Come è noto, l’autorità ecclesiastica prescrive tassativamente che il matrimonio “rato e consumato” non possa mai essere sciolto (a meno che la Sacra Rota non lo riconosca nullo) e che i divorziati risposati siano esclusi dai sacramenti e dalla partecipazione attiva alla vita della comunità ecclesiale. Qualora vogliano tornare in piena comunione con la Chiesa dovranno sciogliere la nuova unione e comunque vivere come “fratello e sorella”. Di fronte a una siffatta ingiunzione Arzuffi si chiede come mai nella Chiesa cattolica, in cui «si è perdonato e si perdona tutto, anche i più efferati crimini, in nome della misericordia» (p. 11), si usi un criterio così rigido solo nei confronti dei divorziati risposati. E ciò mentre nella Chiesa ortodossia e in quella Protestante, pur mantenendo ben fermo il principio della indissolubilità, si consente il nuovo matrimonio in considerazione di circostanze particolarmente difficili e dolorose. Né d’altra parte può sfuggire che il fallimento del matrimonio e la conseguente separazione, «non sempre colpevole e spesso imposta da uno dei due» (p.15), costituisca una profonda lacerazione che genera «uno stato di completo abbandono dentro una solitudine amara». E’ una situazione (che l’autore descrive nei particolari, ma su cui non possiamo soffermarci) da cui non è facile risorgere, laddove un cammino di riconciliazione e la partecipazione alla mensa eucaristica darebbero un grande aiuto.

Da una parte abbiamo dunque la durezza della legge ecclesiastica e dall’altra la insostenibilità del vissuto di chi è in stato di separazione. Il principio su cui è possibile fondare, prima ancora di ogni possibile soluzione, l’ “interrogativo e la proposta da rivolgere ai pastori” è il primato della persona rispetto alla legge. L’autore cita Mc 2,27: Il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato, – e richiama poi il giudizio di Gesù sul comportamento di scribi e farisei: Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito (Mt 23,4).

La riflessione è dunque portata direttamente sui testi neotestamentari ed è in questo che l’autore si concentra, pur confessandosi «un dilettante di teologia e di testi sacri» (p. 9. Vediamo allora la sua lettura dei testi.

In Matteo (23,1-10), come in Marco, il problema è posto dai farisei in modo preciso ma limitato: chiedono se è lecito al marito ripudiare la propria moglie. Il diritto sarebbe quindi del marito e non della moglie. La risposta di Gesù è netta. Dopo avere ricordato Gen 2,24 (L’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne) ingiunge: Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto. E’ un comando assoluto, che non ammette “se” o “ma”. Successivamente il comando è riformulato compiutamente, ma con una clausola che sembra mitigarne o sospenderne l’assolutezza: Chiunque ripudia la propria moglie, mè epì pornéia [se non per fornicazione] e ne sposa un’altra, commette adulterio. Sennonché la clausola, qui riportata in greco e tradotta letteralmente, è presente solo in Matteo. E’ una espressione che ha dato luogo a infinite discussioni, specie per il significato da dare a pornéia. Una linea interpretativa molto diffusa e recepita ad esempio dal commento alla Bibbia di Gerusalemme, rifacendosi a fonti ebraiche, intende l’espressione come indicazione di unioni illegittime (come i casi di concubinato o le unioni di fatto tra consanguinei). La conseguenza è chiara: se l’unione è legittima, il marito non può ripudiare la moglie; se è illegittima, se cioè non si tratta di un autentico matrimonio, può ripudiarla. Arzuffi considera questa interpretazione strana (non risponderebbe alla domanda dei farisei: una unione illegittima non è un autentico matrimonio e pertanto non ha senso parlare di marito e moglie e ancor meno di ripudio) ed illogica. «Neppure si può accettare l’ultima traduzione della CEI “se non in caso di unione illegittima”, che è fuori di ogni logica tranne quella grammaticale. Questa traduzione “adulterata” del testo serve a salvaguardare una prassi, non la verità» (p.33). Egli segue perciò un’altra linea interpretativa, che traduce letteralmente il testo e in particolare il termine pornéia e riconosce perciò all’uomo il diritto di ripudiare la moglie solo nel caso in cui la donna lo tradisca e si abbandoni a comportamenti licenziosi, fino alla prostituzione. E suppone che Matteo abbia introdotto questa clausola per tener conto della realtà e soprattutto perché la donna colpevole di fornicazione ha già, di fatto, diviso ciò che Dio aveva congiunto. Per la stessa ragione, argomenta più avanti l’autore, non si può motivare la difesa estrema dell’indissolubilità con il fatto che, come dice Paolo, il matrimonio cristiano è simbolo dell’unione di Cristo e della Chiesa e riflesso della comunione trinitaria: come può infatti costituire un tale simbolo e un tale riflesso «una unione di fatto spezzata , tenuta in piedi da un vincolo puramente nominale e, per giunta, imposto per legge? Non è un controsenso costringere a tutti i costi le persone a significare ciò che non c’è più?» (p.89).

Il testo di Marco differisce da quello di Matteo anzitutto perché omette la clausola appena considerata e, in secondo luogo, perché pone uomo e donna sullo stesso piano. Diversa è la posizione di Paolo, il quale ammette la separazione solo nel caso di un matrimonio di credenti con non credenti. E’ il cosiddetto “privilegio paolino”. Se il non credente vuole separarsi [il credente] si separi; in questa circostanza il fratello e la sorella non sono soggetti a schiavitù: Dio vi ha chiamati a stare in pace (I Cor 7,15). Arzuffi è dell’opinione che questa concessione non sia stata l’unica nella chiesa del tempo e che «la concessione a favore della fede non sarebbe stata possibile in una situazione bloccata sulla indissolubilità» (p.67).

Vi sono nell’opuscolo molti altri spunti meritevoli di menzione, tra cui, per esempio, la denuncia dell’ambiguità delle sentenze della Sacra Rota e il rifiuto di ricorrere ad essa. Comunque, è In forza della sua lettura dei testi di Matteo e di Paolo e in considerazione della prassi vigente in ambito ortodosso e protestante, che l’autore auspica che la durezza della legge imposta dalla chiesa cattolica possa essere mitigata dalla misericordia in relazione a vissuti personali particolarmente difficili e dolorosi.

Naturalmente possiamo anche rimanere perplessi di fronte a taluni aspetti delle argomentazioni svolte, ma dobbiamo tener presente che trattasi di materia tuttora in discussione tra gli specialisti. E, in ogni caso, non possiamo disconoscere la ragionevolezza della proposta che emerge nelle osservazioni conclusive.  «Dal punto di vista pastorale oserei suggerire alla comunità ecclesiale, con a capo il vescovo ordinario, di accompagnare il separato innanzitutto in un cammino penitenziale di conversione e di consapevolezza, perché rifletta anche rispetto alle richieste della fede e della Chiesa, recuperando così la prassi della Chiesa delle origini. La Chiesa va chiamata ad intervenire molto prima di una sua decisione per una seconda vita coniugale. Questo percorso potrebbe concludersi con una liturgia di riconciliazione [si intenda bene: tra i divorziati e la Chiesa] che dovrebbe avere un effetto pubblico ed ecclesiale, indicando a tutti i cristiani che questi fratelli e sorelle sono reintrodotti pienamente nella comunione fraterna e possono così accedere all’eucarestia. Solo dopo questo percorso possono essere legittimate dalla Chiesa eventuali seconde nozze, riconoscendole però come tali, anche dal punto di vista liturgico» (p.78). Com’è facile constatare si tratta d’una proposta reale, non d’una rivendicazione fatta “a muso duro”. E’ un contributo offerto da un divorziato risposato per una riflessione che tutti devono fare.

Ci piace allora chiudere ricordando quanto scritto recentemente dal vescovo di Gozo (Malta). Riferendosi alla ricerca che tutta la comunità ecclesiale, nella prospettiva del prossimo Sinodo dei Vescovi, deve intraprendere, egli auspica  che “le persone divorziate e risposate non siano considerate come osservatori esterni, bisognosi di ricevere il Vangelo, ma protagoniste, in grado cioè di condividere la loro riflessione, a partire dai loro vissuti esistenziali […] i divorziati risposati sono da considerare insieme interlocutori  e, con i loro pastori, cercatori di una soluzione alla loro complessa situazione” (Missione Oggi, ottobre 2013). In questo spirito le interrogazioni e la proposta di Arzuffi meritano di essere prese in seria considerazione.

Marco Bertè

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