VERSO FIRENZE 2015. QUESTIONI APERTE NELLA TRACCIA PREPARATORIA
Paolo Boschini
Un impianto teologico tradizionale
Nel precedente editoriale dedicato alla Traccia preparatoria del Convegno ecclesiale di Firenze emergeva come la struttura e lo stile del documento rispondano a un impianto teologico tradizionale, che disegna la salvezza come un duplice movimento dall’alto del divino verso il basso dell’umano e dal presente storico verso il futuro escatologico. Al divino, che si dona e si manifesta nel non-divino del mondo umano, corrisponde una situazione di indigenza dell’umanità, la quale porta in sé una domanda di senso, a cui il Dio di Gesù Cristo risponde con l’offerta di una liberazione definitiva dal male in forza della fede nella risurrezione di Cristo.
Non è in discussione la solidità di questo impianto teologico, ma la sua idoneità a affrontare alcune questioni aperte che porta con sé la domanda: quale umanesimo per l’Italia di oggi?
La tentazione del negativo
Nel disegnare lo scenario italiano, in cui oggi si compie l’annuncio del vangelo, la Traccia cede alla tentazione del negativo. «Nubi minacciose» oscurano il nostro orizzonte: sono le molteplici forme della crisi strutturale che stiamo vivendo. La realtà in cui abitiamo sta cambiando, ma non ci è dato di capire in quale direzione. È popolata da segnali contraddittori.Il crescente pluralismo della nostra società potrebbe essere una risorsa che facilita la convivenza pacifica tra i popoli e le loro differenti culture. Invece, si rivela come un fattore che aumenta la complessità sociale e la conflittualità. Genera pregiudizi. Erige nuovi muri e ripristina vecchi ghetti. Anche la dimensione economica della crisi sta producendo «drammatiche conseguenze», che si ripercuotono soprattutto sulle fasce più deboli del nostro paese. Si umiliano i giovani, negando loro «ogni aspirazione a un giusto protagonismo» (pp. 21-26).
Il quadro assume tinte ancora più fosche, quando la Traccia si ferma a riflettere sul «crollo di ideologie totalizzanti (che) lascia il posto a nuove visioni», le quali contribuiscono a rendere l’uomo un essere più controllato e influenzabile. A peggiorare ulteriormente le cose, nella società italiana sono venuti meno quei fondamentali criteri condivisi che sono necessari «per orientare le scelte pubbliche e private». Tutto si sbriciola, nell’uomo fatto di sabbia (Ternynck). Restano solo «schegge di tempo e di vita, spezzoni di relazioni», che pesano sulle spalle di individui sempre più isolati, autoreferenziali e stanchi.
Viene meno il bisogno dell’altro: non si sa più dove collocarlo, come relazionarsi, come evitare che la sua presenza diventi sempre più irritante e trasformi la vita quotidiana in uno scontro continuo. Non ci sono più né orecchi né cuore per udire il suo grido. C’è ormai solo la nostra bocca, da cui sgorgano parole di rassegnata disperazione. Tutto si liquefa (Bauman) nel tempo del disincanto.
Questa è la visione corrente, negli ambienti ecclesiali italiani, dell’umanesimo odierno: è la descrizione di un’umanità non-più-umana. Essa è sostenuta dall’idea dell’uomo come di un essere indigente, che per trovare senso alla propria esistenza deve scegliere se orientare la propria libertà verso l’altro, o se avvilupparsi su stesso: autonomia come relazione, o come autoreferenzialità? (pp. 26-27). Si può riassumere questa visione antropologica nella frase lapidaria di Caritas in Veritate n. 78 (citata a p. 20 della Traccia): «Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia». Il Dio di cui si parla è il Totalmente Altro, che continuamente supera se stesso e perciò sceglie di autoannientarsi procedendo «senza termine in direzione dell’uomo» (p. 35).
L’immagine del Creatore nella sua creatura pare gravemente offuscata. Il mandato di essere custodi della creazione si è pervertito in un’illusione di dominio assoluto, che richiude l’uomo cibernetico di oggi nella gabbia di una tecnologia sempre più dispotica e lo rende un novello «Prometeo incatenato» (Jonas) alla mercé di divinità maligne e vendicative (p. 15).
Percorrere la via della fiducia
Questa interpretazione tendenzialmente negativa del contesto italiano suscita più di una domanda. Dov’erano la Chiesa e i cattolici in questi ultimi decenni? Possibile che il loro contributo alla crescita del paese sia stato così periferico, come lascia presagire l’analisi della Traccia? Siffatte letture della nostra situazione sono controproducenti: smascherano in modo impietoso l’inefficacia di strategie pastorali e progetti culturali. Sono anche inutili, perché da esse non viene nessuno slancio positivo, nessun progetto di trasformazione della vita ecclesiale, né delle dinamiche sociali.
Il ruolo del profeta inascoltato non ci si addice affatto, specialmente se ripensiamo a quali sono stati i temi e i modi con cui siamo intervenuti o abbiamo taciuto nei dibattiti pubblici della seconda Repubblica. Cassandra non è un personaggio biblico.
Nella ripetizione compulsiva di queste interpretazioni pessimiste della situazione italiana non c’è anche un difetto di analisi? Il ricorso a certe letture sociologiche serve strumentalmente a dimostrare la perdurante necessità del cristianesimo, non a comprendere l’umanità di oggi e le sue complesse e contraddittorie dinamiche di cambiamento.
Soprattutto si rischia di non dare il giusto risalto a quella parte emersa del Paese, a cui appartengono attivamente molti cattolici con le loro comunità: un’Italia quotidianamente impegnata a riproporre i valori di umanità presenti nelle molteplici voci della nostra cultura, la quale trova la sua sintesi nei principi fondamentali della Costituzione repubblicana. Da qui devono cominciare le nostre analisi sociologiche. Di fronte a noi abbiamo sempre la domanda: qual è il legame sociale fondamentale, su cui si basa ogni tentativo di umanesimo? la fiducia o la paura?
Per una lettura sapienziale
La via alternativa, che la Traccia indica ma non percorre fino in fondo (pp. 22-23), è la via della fiducia: una lettura sapienziale che consiste nel fare emergere l’intima solidarietà tra la Chiesa cattolica e il nostro popolo, di cui portiamo nel cuore anzitutto le gioie e le speranze. Si poteva cominciare dall’analisi della situazione ecclesiale, collocandola all’interno di quella del nostro Paese: senza aver paura di riconoscere i nostri limiti e i nostri errori, le nostre inadempienze e i nostri ritardi. Ma anche salutando con gioia il nuovo che viene dal basso, frutto del coraggio e del discernimento di comunità parrocchiali e associazioni laicali. E poi seguire – come un filo d’Arianna – le «tracce di una dignità avvertita come inalienabile»: ovvero i desideri e gli sforzi di tanti nostri concittadini per la ricostruzione umana, morale e politica del nostro Paese. Per verificare, infine, come nella nostra società e nella nostra Chiesa queste tracce prendono corpo, si fanno esperienza di vita e diventano in modo consapevole e concreto «forme di buona umanità» (p. 23).
Nella Traccia si ripropone il problema ecclesiologico, che assillò i Padri conciliari nel passaggio dallo Schema XIII a Gaudium et Spes: Chiesa e mondo? Oppure, Chiesa nel mondo?
L’ambiguità del «di più» dello sguardo cristiano
La Chiesa che vive nelle chiese locali – si scrive nella Traccia a pp. 11-13 – testimonia un «“di più” di umanità che si sprigiona dalla fede e dalla condivisione»: «un “di più” che segna la differenza rispetto ai pur preziosi sforzi di altri soggetti impegnati a migliorare le condizioni del vivere sociale». Vi leggo lo stereotipo del cristiano come uomo con una marcia in più: nella capacità di ascolto, nella concretezza, nell’accogliere le diversità, nella profondità della ricerca interiore. È l’uomo che con poco sa fare tanto (pp. 13 e 37), per parafrasare lo slogan di una vecchia campagna pubblicitaria ecclesiale.
Fortunatamente, nella Traccia il «di più» dello sguardo cristiano assume anche un significato meno convenzionale. «Il donde e il verso entro
cui l’umano si sviluppa pienamente» fanno intravvedere che la trascendenza di Dio abita dentro il cuore umano (p. 19). Per questo il cristianesimo non può superare l’umano, lasciandoselo alle spalle, come se esso fosse tramontato, definitivamente sostituito dal cyborg. Invece, se ne prende cura, così come Gesù curava i poveri e i malati, semplicemente ponendosi al loro fianco con «autentica fraternità» (pp. 32-33). Si tratta di un «di più» che potenzia l’essere relazionale dell’uomo e, a partire dalla consapevolezza del suo «essere da» Dio, attiva in lui la capacità di «essere con» gli altri umani (p. 31). Il «nuovo umanesimo», di cui il messaggio cristiano è portatore, indirizza l’umanità contemporanea verso la pienezza dell’umano, «svelando all’uomo chi egli sia veramente» (p. 42). La strada che indica non è quella del rafforzamento e del dominio; semmai, quella dell’indebolimento e della prossimità.
A partire da qui ci si aspetterebbe di incontrare nella Traccia un atteggiamento di dialogo e di comprensione reciproca – e non di contrapposizione – con quei pensieri deboli, che descrivono la condizione umana odierna come inghiottita dall’abisso del nulla, attraversata da grandi domande a cui paiono possibili solo, piccole, inadeguate risposte.
Farci compagni di strada
Il nuovo umanesimo è tale se riesce a inscrivere la salvezza cristiana e la sua offerta di senso entro l’orizzonte di un uomo che cerca continuamente oltre se stesso. Non per esibire la sua volontà di potere, ma perché l’unica potenza che gli è rimasta è saper guardare a ciò che sta oltre se stesso: contemplare e attendere uno sconosciuto non-ancora, la cui luce diafana filtra tra le tenebre del nulla. Più-che-umano, trans-umano, oltre-umano: sono slogan suggestivi e ambigui, che nei cristiani evocano l’esperienza di coloro che in Seir interrogano la sentinella: quanto manca al compiersi della notte? E si sentono rispondere di non smettere mai di interrogare e di interrogarsi (Is 21,11-12).
Il nuovo umanesimo è tale non per le risposte che offre, ma per le domande che ripropone in modo sempre più radicale. Il cristianesimo apostolico sapeva suscitare questi interrogativi (At 2,37). Ma era anche attento a intercettare le domande, specialmente quelle degli esclusi, formulate con codici linguistici non convenzionali (At 3,3). Solo nel farci compagni di strada di questa umanità in ricerca, è possibile a nostra volta domandare: «capisci quello che stai leggendo?» e offrire la nostra visione dell’umano (At 8,30).
Paolo Boschini
docente stabile di Filosofia Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna
La teologia di Paolo Boschini vuole ispirare fiducia. Ne abbiamo bisogno, e dovremmo sentire il desiderio di annunciarla nel mondo. Il Vangelo è, anche per la società di oggi, una “buona novella”.
Alla Chiesa italiana Boschini ricorda che Cassandra, la profetessa che inascoltata annuncia catastrofi, non è un personaggio biblico. Ma qual è il comportamento recente più spaventato (e quindi spaventoso) della Chiesa italiana? Paolo Boschini lo denuncia in un lampo, nell’incipit del precedente editoriale di agosto: è una Chiesa che ha paura a “realizzare a livello diocesano le ampie consultazioni promesse”. “Si sta ripetendo per il convegno di novembre a Firenze ciò che è successo in vista del duplice Sinodo sulla famiglia”.
Disobbedendo, aggiungo io, a un papa osannato, Francesco, che a sorpresa, in linea con il Concilio, aveva dato la parola ai laici, i più competenti a ragionare sulla sessualità e sulla famiglia. Di questo è innanzitutto responsabile il clero, quello conservatore ma anche quello progressista, ma anche i laici non hanno trovato la strada per prendere la parola in autonomia.
Per incontrare in Italia, anche in sedi impegnate, un prete o un laico che hanno avuto l’opportunità di rispondere collettivamente ai questionari sulla famiglia, occorre cercare con il lumicino nel buio. Non è stato così nelle vicine Svizzera e Austria.
Torniamo ancora più indietro. A cosa attribuire le analisi sbrigative della Cei sulla società e sulla politica italiane? Io credo all’aver disatteso all’impegno che il Concilio ci aveva affidato come contributo nel cammino con altri nella Gaudium et Spes (n.75: del “curare assiduamente l’educazione civile e politica, oggi tanto necessaria”. Una cura che è stata sostituita per anni dall’indifferenza, dall’invettiva generica, dal parteggiare in cambio di privilegi. Atteggiamenti decisi dall’alto. L’ascolto dei laici avrebbe visto emergere, quanto meno, il pluralismo delle posizioni. Di questo si è avuto paura. E’ dalla fiducia che può venire il cambiamento.
Grazie per gli utili elementi di analisi; condivido pienamente l’ultimo paragrafo
Ringrazio Paolo Boschini, per la speranza che trasmette il suo testo.